Quella Morte ci fa Sudici
di Vincenzo Consolo
«È stato giustiziato» si dice quando viene eseguita una sentenza di morte nei confronti di un condannato. Giustiziato: ma la giustizia, nel caso di un condannato a morte, non ha più significato, non è più giustizia. L’istituzione giudiziaria che emette una sentenza di morte non è che un’istituzione di vendetta, un’istituzione che si fa a sua volta criminale perché sentenzia di uccidere un assassino, vero o presunto che sia.
E presunti assassini sono spesso, in quel grande e potente Paese che è l’America, che sono gli Stati Uniti, i più poveri di quella società ferocemente mercantile, i più emarginati, i più ghettizzati.
Nero, nato e cresciuto nel ghetto della californiana Los Angeles era Stanley Williams, atrocemente assassinato, per la suprema decisione di quello Stato, nel braccio della morte del carcere di San Quentin, dopo ventiquattro anni di agonia psicologica e dopo ventidue minuti di tormento, di spasimo fisico finché la famosa siringa con il miscuglio di veleni, iniettato dal boia, non ha sortito il suo effetto.
La tecnica della iniezione letale, meno vistosa e spettacolare della sedia elettrica o dell’impiccagione, abbiamo saputo essere stata inventata dal signor Karl Brand, medico personale di Hitler, per eliminare i disabili.
Nero e del ghetto era Stanley Williams, nero ed emarginato come tanti altri giovani del suo colore e della sua condizione sociale (abbiamo visto la sorte di questa gente povera durante il disastro del ciclone Catharina a New Orleans).
Privilegiato è stato invece, perché bianco, ariano anzi, muscoloso, prestante, quel Terminator, quell’Arnold Schwarzenegger, quel governatore della ricchissima California che ha negato a Williams la grazia (sono terribilmente insopportabili gli imitatori italioti che si ostinano a negare la grazia a carcerati innocenti e per giunta gravemente ammalati). Privilegiato Schwarzenegger, questo austro-americano, perché parte dell’olimpo di quelle orrende maschere, di quegli osceni prósopon che sono i divi della grascia dorata della cinematografica Hollywood. Non ha voluto, questo divo, questo improbabile governatore, concedendo la grazia a Williams, alienarsi il consenso dei suoi elettori repubblicani, elettori di una destra del privilegio e della sopraffazione. Gli stessi elettori che ha del resto il presidente di quegli States, quest’uomo dal cognome monosillabico, come monosillabica - monosillabo della velocità e del mercato - è come ha scritto G. A. Borgese, la lingua americana.
È arrivato alla presidenza degli States, il Bush secondo, salendo sul mucchio di cadaveri di uomini che aveva fatto giustiziare da governatore del Texas. Questo Bush secondo che dice di esportare la democrazia in Iraq con le bombe e le armi micidiali come il fosforo bianco, che ancora ieri comunicava ufficialmente il bilancio dei morti in quel martoriato Paese: 30mila iracheni e 2mila soldati americani, bilancio trionfante come quello dei profitti di una industria petrolifera.
E ci appare purtroppo l’America, in questo nostro tempo, il Paese dell’eterno Far West, dei processi sommari e delle impiccagioni, il Paese dello sterminio degli indiani. L’America violenta che grandi scrittori ci hanno narrato da Hawthorn a Faulkner a Dos Passos a tanti altri. Ma noi sappiamo che c’è anche l’altra America, quella della democrazia e della civiltà, l’America nobile che aborre la violenza di Stato, la tortura, la pena di morte.
La pena di morte: «La morte è ella una pena veramente utile e necessaria per la sicurezza e per il buon ordine della società?» si chiedeva Cesare Beccaria che, con il suo Dei delitti e delle pene, aveva messo in crisi gli ordinamenti giudiziari europei, aveva fatto abolire la pena di morte nella Russia di Caterina e nel ducato di Toscana. Ma in tempi più recenti altri scrittori hanno riflettuto sulla tortura e sulla pena di morte. Arthur Koestler, ad esempio, l’autore di Buio a mezzogiorno. Scrive: «Nel 1937, durante la guerra civile spagnola, ho trascorso tre mesi nell’incubo di una condanna a morte per spionaggio, assistendo all’esecuzione dei miei compagni di reclusione e preparandomi alla mia. (...) Di quei tre mesi ho serbato un singolare interesse per la pena capitale. (...) Ogni volta che in questo pacifico Paese (l’Inghilterra) un uomo, o una donna, si accinge ad avere la nuca stritolata (per l’impiccagione) i miei ricordi cominciano a suppurare come una piaga mal guarita. Non potrò veramente trovar pace fintanto che la pena di morte non verrà soppressa».
Albert Camus racconta di suo padre che ad Algeri era andato ad assistere a una esecuzione capitale con la ghigliottina. Tornato a casa, l’uomo si mette a letto e quindi comincia a vomitare. E osserva l’autore de La peste: «Bisogna dedurne che quest’atto rituale è veramente orribile se è riuscito a vincere l’indignazione di un uomo semplice e probo». E, ripetendo le parole di Koestler, Camus così conclude: «La pena di morte insudicia la nostra società, e in ragione di ciò i suoi partigiani non possono giustificarla».
E noi speriamo che l’America, cambiando governatori e presidente, possa finalmente togliersi di dosso questo sudiciume. L’America e tutti gli altri Paesi del mondo che ancora conservano questo assassinio di Stato che si chiama pena di morte.
che bello quest'articolo. si dovrebbe tradurlo perché possano leggerlo anche là (e in altri paesi insudiciati).
Carolina
cominciamo ad attivarci con le redazioni dei giornali, e a protestare quando si usano termini impropri...
io lo sto facendo già da un po'.
I siti delle prigioni USA riportano anche i motivi delle condanne; si va dall'evaso che ha sparato in faccia alla vecchietta e poi si è preparato la cena nella stessa casa, a quello che ha rapito, stuprato e strangolato 14 ragazzi dai 12 ai 20 anni. E Williams ha ammazzato a fucilate quattro persone; non è Schwarzenegger che lo ha condannato, ma tutti i possibili gradi di giudizi americani e più volte. La pena di morte, soprattutto a distanza di 20 anni dai crimini è inumana, ma so che se queste cose succedessero a qualcuno a cui voglio bene vorrei questo, vendicarmi.