Shel Shapiro: è la pioggia che va...
di Toni Jop
«Sotto una montagna di paure e di ambizioni c’è nascosto qualche cosa che non muore, se cercate in ogni sguardo dietro un muro di cartone troverete tanta luce e tanto amore, il mondo ormai sta cambiando e cambierà di più, ma non vedete che il cielo ogni giorno diventa più blu»: proprio vero, Shel? «Così cantavamo tanti anni fa, così cantavo, così credevo. Allora andava bene, c’era l’onda lunga, quella che faceva surfare un’intera generazione convinta che bastasse tenere ben ferma negli occhi la prospettiva di un mondo migliore per toccarlo con la mano, più prima che poi. Il bello è crederci anche oggi, avendo a disposizione tutto ciò che serve, al contrario, per sentirsi vinti e frustrati. Ci credo per un motivo semplicissimo: non ho alternative alla speranza, alla convinzione che anche la mia vita possa, nel suo microcosmo, produrre un modesto cambiamento, positivo. Dio, mi fai dire cose pesanti, servono a chi?».
Non so se servono, Shel, ma forse aiutano a capire e a sentire, piaceri - o dispiaceri - piuttosto preziosi, oggi. Shel è un grande ragazzo di un discreto numero d’anni portati strabene. Ha il codino e un aspetto no-target, viene da pensare che è uno dei nostri, uno di quelli che non hanno mai smesso di sentirsi, in fondo in fondo, pesci fuor d’acqua, vite da rock, antagonismi post esistenzialisti, disadattamenti di un Sessantotto che ha incrinato cultura e politica «conformi». Senza esagerare. Soprattutto, per quel che riguarda i lettori, uno dei Rokes, la voce dei Rokes, la loro immagine. Nessuno, forse, ha scritto un libro dal titolo: «Mamma dimmi chi erano i Rokes» per cui colmiamo le lacune. Gruppo inglese sceso quasi casualmente in Italia in anni non sospetti, all’alba dei Beatles, primi anni Sessanta; venuti per fare 10 e trattenuti, beati loro, per fare 1000. Per sei-sette anni, signori incontrastati del rock dal vivo sui nostri palchi, si ballava con la loro musica, si faceva il bagno, in mare, e anche la doccia con quel bel rock aspro, teso, e insieme romantico. Ci si innamorava, si mandavano a quel paese i genitori, si scopriva una vita nuova, mentre avevamo la sensazione che il resto del mondo fosse costretto a prendere atto che c’erano delle cose nelle nostre tasche che non si potevano eludere: valori? Più realisticamente noccioli di crisi consapevole di un sistema che non riusciva più a governare e a digerire le proprie, come si diceva, «contraddizioni». In più, lo sappiate o no, a tutti questi elementi, Shel ne aggiungeva uno personale ma non indifferente: era, è ebreo, figlio di genitori ebrei di origine russa - e da buon ebreo adora il Natale -. Musica, inquietudine, gioia, depressione e creatività in queste radici, si mescolano spesso; la storia della cultura musicale, e non solo, degli ultimi cinquant’anni vi si abbarbica in parte con una certa biblica predisposizione, vedi alla voce Bob Dylan. «C’è una strana espressione nei tuoi occhi», «Ma che colpa abbiamo noi», «Bisogna saper perdere», «È la pioggia che va», «Piangi con me», «Un’anima pura». Milioni di dischi per delle hit che hanno fermato il tempo senza essere delle pietre miliari della storia della musica, con l’eccezione di «Ma che colpa abbiamo noi». Shell è d’accordo: «Vedi, sono convinto che quei brani, pur belli, siano sopravvissuti grazie a noi, ai Rokes, a ciò che eravamo. In questo avevamo delle chance rispetto a tanti altri gruppi italiani che si erano costruiti per mimesi, per virtù di una ingegneria pop che allora si stava facendo le ossa. In altre parole, eravamo veri, non cloni, il nostro modo di cantare e di stare sui palchi diceva delle cose che altri non dicevano. Sembra che mi stia lodando e un po’ è vero ma così stavano le cose». Fai bene, anche perché certa sostanza, i testi per esempio, non erano roba vostra...«’È la pioggia che va’, è stata scritta da Mogol in un momento felice, è una perla a suo modo, ma se tacessi sul fatto che quel testo è stato composto in virtù di quel che eravamo noi Rokes, non renderei merito né alla storia della musica italiana né a Mogol stesso. Ma che stronzata: il congresso della Margherita adotta quel brano e lo riferisce a Caterina Caselli invece che a noi...revisionismo di bassa lega»; che ci vuoi fare Shel, l’avevo proposto a Veltroni qualche anno fa come inno dell’Ulivo ma come vedi non è andata, ma stiamo a vedere: «Il denaro e il potere sono trappole mortali che per tanto e tanto tempo han funzionato...ma noi che stiamo correndo avanzeremo di più...non possiamo cadere più in giù, ma non vedete nel cielo quelle macchie di azzurro e di blu».
Che brivido, non eravamo in pochi a emozionarci per quelle «macchie di azzurro e di blu»; fessi, ingenui, infantili forse, forse ancora adesso. E tu con quella voce anglofona che smagriva, e drammatizzava, tutte le ‘dentali’, un bel fascino in più, pareva tutto vero, forte, in sintonia perfetta con quell’immenso bisogno di marcare un tempo nuovo, diverso, la categoria della possibilità era presente, aveva tutte le porte aperte...«Vero è che che quelle porte sembrano ben chiuse ora. Ti riporto ai nostri tempi, ai miei, se vuoi, alla mia esperienza, a costo di far la parte del grande fratello un po’ palloso: ai ragazzi di oggi abbiamo tolto ogni possibilità di uno sguardo corale sulle cose della vita e del mondo; ascolta i testi delle loro canzoni: c’è un disperato bisogno di non sentirsi soli, molto più che negli anni Sessanta e hanno necessità di sentirsi utili, presenti, protagonisti. Cosa che si verifica quando partecipano a situazioni di massa». Shel, a onor del vero ricordo che 40 anni fa si sentivano schifezze ‘corali’ da incubo...«Sì, ma la fabbrica, l’industria non aveva il potere che ha oggi. Oggi spesso la creatività è nella confezione, non nel contenuto. Te lo posso dire perché oltre ad aver composto qualche brano di successo, ho prodotto dischi per milioni di copie, per un po’ anzi ho fatto solo questo: so perfettamente come funziona la grande macchina e non mi entusiasma per niente, però il gioco è questo, per non parlare della tv. Lì è ancora peggio: se non passi in tv non esisti, a meno che tu non abbia dei circuiti alternativi per cui esisti in un altro modo.
Quindi l’apparente padrone è la tv, finché permettiamo che sia così, è come dire che il nostro padrone, qui in Italia, è Berlusconi. È un paradosso ma neanche tanto: il paese sembra averlo capito e si sta costruendo piano piano una dimensione corale proprio nella resistenza a questo strapotere, almeno lo spero». Hai detto che hai ripreso la chitarra in mano; ho sentito quel che fai, hai la stessa grinta garbata di allora, riesci a fare rock in italiano come lo fanno solo Vasco Rossi quando s’incazza e Guccini quando canta in modenese, ce l’hai nelle ossa...«E canto e suono e mi diverto da pazzi. Mi chiamano di qui e di là e credo di riuscire a emozionare chi mi ascolta. L’emozione è tutto. Insomma sono presente, ed è già tanto; in questo presente trascino la mia storia, la rivisito e la offro assieme alle mie cose più recenti». Shel, allora è vero che il rock è un eterno presente? «Bene, caro amico, ti informo che cammino, dormo, sogno e respiro ogni giorno nel rock. E ti invito e invito chi sta leggendo a camminare con me. Auguri».
Uno dei pochi che in Italia non sono mai piaciuti i Rokes ne da dentro e tantomeno da fuori è propio Shel Shapiro.In tutte le interviste che ho sentito ha sempre sputato sul piatto dove era diventato ricco e famoso,e noi cretini a compragli i dischi.Se non fosse per il rispetto che ho per Bobby Mike e Johnny.Pero i The Rokes sono una cosa e Shapiro è un'altra
Certo che il commento di Bruno è incommentabile. Lo dico con cognizione di causa, sì io ho vissuto e lavorato con i Rokes e quello che dice il nostro amico non è la verità. Erano dei professionisti e tali si comportavano sia in pubblico che nella loro vita privata. Gli altri gruppi dell'epoca non erano ai loro livelli di professionalità. Tutto veniva pianificato e programmato con precisione e accortezza, io facevo il tecnico delle luci, che per quei tempi avere dei tecnici era il massimo. Saluti Paolo Garbo