Banche e potere. Questi piccoli italiani
di DAVID BIDUSSA
Nel clima politico seguito ai temi a centro della discussione pubblica (Banca d'Italia e Unipol, in particolare, è tornata forte la tentazione della riproposizione del mito del "bravo italiano". Non consiste solo nell' autorappresentarsi come naturalmente buoni, anche quando si sta dalla parte dei "cattivi" o si agisce da "cattivi", ma è anche il fatto di evitare di confrontarsi con i fatti della storia oppure - se messi alle strette - far in un qualche modo spallucce cavandosela con la consolazione che comunque non si è stati peggiori di altri. (E' il caso per esempio delle riflessioni avanzate da Angelo Del Boca nel suo Italiani, brava gente, Laterza, che solleva la questione della falsità di quel mito e delle considerazioni alquanto fragili appostigli da Sergio Romano sul Corriere della Sera del 27 dicembre scorso)
Vecchia discussione che i ripresenta ogniqualvolta in Italia si sia posta la questione dell'identità di noi Italiani e che si tiene sulla riproposizione costante di quel mito e sulla discussione - altrettanto costante - volta a ridimensionarlo o a dissolverlo.
Mito del bravo italiano, tuttavia, non gira solo attorno alla bontà. Prevede anche la costruzione di una retorica in cui l'italiano non fa la storia, ma la subisce e che fonda la propria identità nel fatto di patire torti. O nel risalire faticosamente la china a fronte di poteri forti che lo vogliono "servo", comunque non libero di decidere del suo futuro. Ovvero vittima di forze occulte che "remano contro", che lo vogliono alla fine "figlio di un dio minore".
Una retorica che ha trovato spesso cittadinanza a destra e a sinistra e che nella storia dell'Italia contemporanea è stata agitata da tutti i movimenti di protesta e di "rivolta", dai Fasci di combattimento, alla retorica del populismo di sinistra, fino alla Lega.
Questa retorica del mito del bravo italiano ha avuto largo spazio in questi giorni. L'ha avuta nelle dichiarazioni dell'ex-governatore della Banca d'Italia Antonio Fazio che una volta terminato il tormentone delle sue dimissioni ha di nuovo riproposto la sindrome della vittima dei poteri forti per spiegare la propria situazione. L'ha avuta nelle spiegazioni spesso poco chiare di chi ha affrontato lungo tutto l'arco politico la questione delle proprie implicazioni nell' affaire Fiorani. L'ha avuta nelle spiegazioni e nelle dichiarazioni di chi a destra ha esaltato il modello "italiano" contro i poteri forti stranieri. L'ha avuta in chi a sinistra ha difeso a priori una superiorità della propria etica economica senza presentare e discutere progetti alternativi in virtù di una dimensione innata che è tutta da dimostrare. L'ha avuta, infine, nel modo in cui è stato discusso il possibile arrivo in Italia di banche non italiane. In tutto questo è tornata a farsi sentire la retorica della possibile perdita del proprio profilo nazionale.
Il problema è invece molto semplice e diretto: la modernità è una sfida ala cambiamento. Possiamo affrontarla se rimettiamo in discussione assetti, strutture, poteri che quel cambiamento non vogliono non per occulti motivi, ma semplicemente perché non sono innovativi, ma conservativi. A destra e a sinistra. Perché innovazione significa avere un'agenda di trasformazioni, ridiscutere patti di garanzia precedenti e consolidati, riscrivere le eccellenze economiche e produttive del nostro paese. In breve chiudere con la politica del piagnisteo e misurare i comparti e i settori che permettono un nuovo rilancio del modello economico.
Dietro alla cordata perché una banca italiana "rimanga italiana" non sta solo un'operazione finanziaria più o meno legittima (su questo indaghi chi deve indagare). Risiede, invece, un codice culturale e un'ideologia con cui non è improprio fare i conti. Quest'ideologia si sostiene sull'idea che solo il passato fornisce identità a un gruppo. Ovvero il fatto che l'identità sia un prodotto della tradizione e che questa sola ha il potere di dirci "chi siamo" nel presente.
In quest'ambito l'identità non appartiene alla Storia, ma a un luogo, anzi alla sua sacralizzazione. Riguarda una presunta continuità senza trasformazioni rispetto a "radici" che risultano testimoniare di ciò che un gruppo è e deve continuare ad essere. Chiama in causa come si intende guardare al futuro e dunque include un'idea precisa dei processi di formazione e di costruzione della memoria pubblica. Sollecita una costruzione di percorsi didattici e dunque allude a come si pensano o si riformulano gli ordinamenti scolastici.
Legare identità a tradizione significa in altri termini prendere delle decisioni relativamente alla memoria collettiva delle generazioni future, scegliere il profilo culturale di cui dotarle e il deposito di risorse simboliche e narrative con cui "costruirle".
La retorica del "Fuori i barbari" in un mondo globalizzato, preliminarmente, allude all'impiego di uno stratagemma, pericoloso e ingenuo, volto a non affrontare i problemi che abbiamo di fronte. Si maschera in vari modi: con la difesa del passato e del "piccolo è bello"; con la retorica (peraltro costruita su un falso) di noi miseri Venerdì in balia di Robinson malefici e perfidi; con l'evocazione di improbabili comitati d'affari riuniti in qualche sotterraneo a dissolvere la nostra identità storica. La retorica del mito del bravo italiano non è una risorsa. E' solo l'illusione, al di là delle dichiarazioni altisonanti sull'etica economica e l'"innovazione furbesca" fondata sulla logica del tre per due, che facendoci piccoli ci salveremo perché qualche "potere buono" (come nelle fiabe popolari) ci salverà dai "poteri cattivi" che assediano un Fort Alamo che non c'è.
totalmente d'accordo
ottima riflessione. per attualizzarla al populismo attuale, cfr. l'articolo sul mito "favolistico" demagogico dell'Italia "spaccata" sempre da Repubblica (cartacea) di ieri, per la penna di Ilvo Diamanti. Modelli culturali, modelli sociali, modelli economici assurdi...
Carolina