Senza, Sharon, Israele orfana due volte
di David Bidussa
Dieci anni dopo ci risiamo.
Israele è una democrazia politica che in un momento cruciale della sua storia deve affrontare la verifica della sua trasformazione senza il leader politico che ha avviato quel medesimo processo di trasformazione.
Era accaduto con la morte di Ytzhak Rabin (novembre 1995). Allora una dose massiccia di attentati di Hamas decretò in maniera definitiva l'epilogo di un possibile processo di pace, e spianò la strada al trionfo elettorale di Benjamin Netanyahu contro Simon Peres, l'esponente della continuità del processo. Peres sconfitto - prima ancora che nelle urne - nella sua condizione di prigioniero di una sicurezza che lo costringeva a muoversi nel suo paese in auto con vetri anneriti e talora in auto anonime per timore di attentati al corteo ministeriale.
Era la primavera del 1996. Israele sembrava aver compiuto una svolta definitiva. Era la generazione dei figli politici della reaganomics, dei fidi allievi dei "Chicago Boys", a prendere in mano le redini della politica in Israele. Il successo di Netanyahu, tuttavia, non era conseguenza di una proposta politica. Era, invece, la risposta arrabbiata al senso di impotenza, alla percezione di avere le spalle rivolte al mare e a cui si poteva replicare solo avanzando. Una condizione in altre parole dove indietreggiare equivaleva a morire. Una condizione che più volte è tornata negli anni della seconda intifada e che rischia di ripresentarsi oggi in un clima pre-elettorale a dir poco incandescente. Si è aperta oggi una seconda possibilità per Netanyahu? Forse, anche se da sola questa condizione non sufficiente, ancorché necessaria. In politica i processi non si ripetono mai due volte secondo lo stesso copione.
Tuttavia la variante Netanyahu dice che oggi come allora il problema risiede nella capacità di dotarsi di una politica. Ariel Sharon ha compiuto un ciclo e alla fine ha aperto verso una nuova politica a modo suo. A modo suo, ovvero come molte volte in tutta la sua vicenda pubblica, senza consultarsi con qualcuno ma forzando in un punto la situazione fino a rovesciare i termini della condizione di partenza e costringendo l'avversario a una contromossa. Così avvenne nella guerra dell'ottobre del 1973 quando contro tutti gli ordini impartiti attraversò il Canale di Suez, e pareggiando una conflitto fino a quel momento perduto. E così è stato di nuovo l'estate scorsa, quando è stato avviato il processo di fuoriuscita unilaterale da Gaza.
Questa scelta, con l'uscita di scena non solo del suo regista ma del suo unico attore, lascia tuttavia aperti molti problemi e pone un problema specifico. I problemi che lascia aperti sono quegli stessi che attanagliano chiunque oggi si candidi a sostituirlo.
Prima questione: c'è oggi una generazione politica in grado di esprimere un progetto? Se per generazione si intende un gruppo riferito a una stessa classe di età che ha vissuto nello stesso tempo un identico evento, questa generazione non c'è.
Una generazione politica non è solo data da una fascia di età comune (questa può essere una condizione non indispensabile). Ad una generazione politica appartengono quegli individui che giungono in modo simile o consapevole a prendere posizione nei confronti delle idee guida e dei valori dell'ordinamento politico nel quale sono cresciuti.
Una generazione politica, dunque, si forma dentro un processo. Forse proprio questo sarebbe stato l'esito nel tempo medio (come in qualche modo dimostra l'intervista che Ehud Barak ha dato al "Corriere della Sera" ieri) se il processo dopo Gaza si fosse in qualche modo consolidato. Ma occorreva un passaggio elettorale per sancire un prima e un dopo. E' esattamente qui che sta un nervo scoperto della crisi politica israeliana. Non è detto che non possa accadere, ma non è automatico. E comunque necessita di una forza politica carismatica per prodursi
Ecco allora la seconda questione aperta. Chi è in grado oggi di esprimere e suscitare carisma politico all'interno della realtà politica israeliana? Appartenere alla generazione dei fondatori per quanto indispensabile non è sufficiente. Anagraficamente Shimon Peres vi appartiene, ma non è percepito come fondatore, al massimo come un tecnico che ha accompagnato lungo la storia del paese tutti i leader laburisti da David Ben Gurion a Golda Meir a Rabin. Un eterno numero due. La testa pensante dell'ultimo Rabin, eppure incapace di reggere il confronto con lui (Ehud Olmert, primo ministro ad interim, giunge alla sua odierna posizione con un profilo che non è molto diverso).
Ma questa condizione include che ci sia sul campo un'agenzia politica in grado di esprimere leadership se non carismatica, almeno condivisa. La scommessa di Kadimah, la formazione politica nata meno di un mese fa dopo l'abbandono del Likud da parte di Sharon, sarebbe dovuta esser questa nel tempo medio, passando per una direzione carismatica. Questo per un motivo essenziale. Israele è una democrazia politica fondata su partiti politici di massa. Per quanto sia una realtà americanizzata, Israele mantiene ancora forti i tratti della dinamica propria delle democrazie politiche europeo-continentali: partiti di massa, collateralismo associativo, formazione di quadri al proprio interno.
Nella storia di Israele una sola volta un leader politico di grande carisma nazionale ha fondato un partito come lista elettorale: è stato David Ben Gurion nel 1963 con una lista che si chiamava Rafi. Quella lista è durata una legislatura e ha espresso quattro deputati in tutto su 120. Fu l'esperienza che segnò il suo tramonto politico e il passaggio di testimone verso Golda Meir. A differenza di Ben Gurion Sharon è arrivato a una medesima scelta sull'onda di una grande spinta di opinione e questo forse rende ancora possibile che Kadimah regga, almeno in queste settimane (se riuscirà ad arrivare allo scontro elettorale e come ne uscirà è ancora tutto da vedere).
Tuttavia questa vicenda ha un riflesso anche oltre lo scenario israeliano. E induce ad un'ultima riflessione.
La politica non dipende solo dai contenuti, dipende molto dagli uomini concreti, dalle loro volontà. Ovvero dall'intelligenza della politica. La costruzione dei partiti e di liste legate "alla persona", se da un lato sembra garantire una velocità nelle decisioni e nelle azioni, e sembra confortare sul piano della "confidenza", per altri aspetti, invece, pone a stress una continuità delle scelte. Questo soprattutto in presenza di un ricambio generazionale che non c'è, di un ceto politico che appare improvvisato o poco permeabile al ricambio, che ha una visione molto personalistica della politica, talora di una classe politica che viene messo sotto scacco al primo stormir di foglie, o per malore fisico. Per quanto bizzarro e imprevisto il malessere di Gerusalemme parla anche di noi.
Bellissimo.
Bellissimo.
Stanotte c rifletto meglio ma.. Bellissimo
sono molto rattristato dalla piega che sta prendendo l'interpretazione della malattia e della probabile fine della carriera politica di sharon.
tutti si stanno facendo prendere la mano dal vecchio vizio italiano sintetizzato nel detto romanesco "piagni er morto e fotti er vivo".
possibile che nemmeno bidussa ricordi gli orrori del libano?
Cosa c'entra il Libano?
L'articolo di Bidussa ha come oggetto l'evoluzione della situazione politica israeliana e del processo di pace, analizzato a partire da interessanti ragionamenti su come si formano le leadership e i processi politici.
Già che si parla di Libano una domanda: l'anno scorso è morto il generale cristiano maronita che ha compiuto le stragi di Shabra e Chatila; qualcuno si ricorda come si chiama?