Noi figli della memoria dello sterminio
di david Bidussa
Da alcuni anni - per la precisione dal 2001 - il 27 gennaio è diventata una data pubblica. Intorno a quella data (che ricorda la liberazione del campo di Auschwitz e che è stata assunta come il simbolo dello sterminio), si accumulano tensioni. Si sarebbe dovuta tenere oggi una manifestazione di Fiamma tricolore a Milano. Poi in seguito a una straordinaria mobilitazione di opinione che ha coinvolto parti diverse della città, il questore di Milano giovedì sera ha imposto il rinvio del corteo a una data successiva e comunque dopo l'1 febbraio.
Questo dovrebbe impedire di trasformare la settimana che immette al giorno della memoria in una discussione concentrata su Fiamma tricolore, o sulla libertà o meno di manifestare. Forse abbiamo evitato - per ora - che la questione della memoria si archivi invertendo il senso delle cose: i laudatori dei carnefici accreditati come nuove vittime. Ma la questione rimane e non riguarda l'etica. Concerne un problema di contenuto generale del giorno della memoria. Sul senso che quella data ha, sulla sua funzione e, non ultimo, su chi siano i suoi protagonisti.
Nel luglio 2000 una legge dello Stato italiano ha definito la questione della memoria dello sterminio antiebraico nel corso della Seconda guerra mondiale come tema di riflessione collettiva. Da allora molte volte in questi anni la parola Shoah (letteralmente annientamento) ha iniziato a circolare e a far parte del vocabolario pubblico. A differenza di allora forse oggi è più radicata la percezione di quell'evento. E' apprezzabile che lo sia.
Da molte parti si è detto e spesso si è tornati a ripetere che occorreva fissare la memoria della Shoah proprio per prevenire l'eventualità dell'oblio. Questo richiamo sembra pertinente ogni qualvolta il nome Auschwitz (o alternativamente: forni) viene usato "con leggerezza" (per esempio tra tifoserie avversarie allo stadio).
Sarà banale dirlo, ma vorrei osservare che se qualcuno "invita" qualcun altro ad incamminarsi verso Auschwitz, non è in conseguenza di un vuoto di memoria. Chi esalta allo stadio Auschwitz, lo fa perché di Auschwitz sa quanto meno l'essenziale: che vi furono sterminate milioni di vittime vagheggiate come nemici mortali.
Serve allora la solita lezioncina moralistica sul male? Si può pensare alla memoria come momento non solo celebrativo?
Vorrei osservare tre cose a proposito di questa questione.
Prima questione. Il Giorno della memoria - il 27 gennaio - non è il giorno dei morti. Per questa ricorrenza abbiamo già una data (il 2 novembre) nel nostro calendario civico e pubblico. Non c'è alcun bisogno di duplicarla. Il 27 gennaio è invece il giorno dei vivi. Della memoria per i vivi e non della commemorazione dei morti.
Più precisamente. La Shoah è un evento che ha voluto dire distruzione fisica di milioni di individui sulla base di una macchina persecutoria che colpiva gli inquilini della porta accanto. Per questo la memoria del loro sterminio riguarda tutti noi. Non è un evento privato o corporativo. E' l'evento strutturale in cui noi europei abbiamo conosciuto le nostre "potenzialità". Forse la Shoah ha modellato l'identità ebraica, individuale e collettiva. Ma il 27 gennaio non è il giorno dell'identità ebraica, né la riguarda. Il giorno della memoria riguarda un pezzo della storia culturale dell'Europa con cui l'Europa ha iniziato a confrontarsi, in ritardo e spesso con disagio. Su questo sarebbe bene tenere dritta la barra.
Seconda questione. Negli anni scorsi nel linguaggio corrente è stata spesso usata la categoria di nazismo in riferimento alla guerra nei Balcani. Per certi aspetti quel confronto è eccessivo; per altri, invece, è fondato e pertinente. Consideriamo prima il dato eccessivo.
Nell'ambito dei conflitti etnici il sistema di sterminio si colloca dentro
una successione premoderna. E' la scena tipica del "giorno dopo" della
conquista della città tra Antichità ed Età moderna da parte delle truppe
assedianti: si uccidono gli uomini, si stuprano le donne, si usa violenza
fisica sui bambini. Auschwitz sancisce un altro meccanismo di distruzione del corpo, in cui è prevalente il dato simbolico, accanto a quello sistematico della distruzione. Lì sta la sua modernità e il fatto che parli a noi, vivi.
Ora invece consideriamo un aspetto per cui quella comparazione non solo è pertinente ma allude significativamente alla nostra quotidianità di oggi.
Perché un evento acquisti il carattere pubblico per una comunità occorre che si costruisca la consapevolezza di un lutto e dunque di un vuoto, ovvero di una cosa che segni collettivamente uno scarto tra "prima" e "dopo". La memoria pubblica non è altro che la consapevolezza di quel vuoto. Un aspetto che è drammaticamente divenuto attuale nel silenzio di tutti noi di fronte ai fatti di Rwanda tra il 1994 e il 1995, e nella guerra ai civili e ai laici nell'Algeria degli anni '90. Due casi emblematici in cui, per rimanere al nostro tema, non si è attivata memoria. Né allora, né finora.
Terza questione. La memoria non è un fatto. E' un atto. Proprio perché la memoria è un atto che si compie tra vivi ed è volto a legare tra loro individui in relazione alla costruzione di una coscienza pubblica, essa ha un valore pragmatico, ovvero serve per fare qualcosa. E' un atto che dice oggi che del passato si è trattenuto qualcosa, e che quel qualcosa ha arricchito la nostra capacità di agire. E questo proprio perché in quel contesto si sono date molte possibilità e molti hanno fatto parte di una macchina distruttiva, anche nella sfera delle vittime. Ma questo se da una parte non significa che si confondano e si assimilino i ruoli, dall'altra obbliga a riflettere su ciò che tratteniamo di quell'esperienza. Ovvero del valore civico di quella riflessione pubblica.
"E' ingenuo, assurdo e storicamente falso - ha scritto Primo Levi - ritenere che un sistema demoniaco, qual era il nazionalsocialismo, santifichi le sue vittime: al contrario, esso le degrada e le sporca, le assimila a sé, e ciò tanto più quanto più esse sono disponibili, bianche, prive di un'ossatura politica e morale. (…). Esiste un contagio del male: chi è non-uomo disumanizza gli altri, ogni delitto si irradia, si trapianta intorno a sé, corrompe le coscienze e si circonda di complici sottratti con la paura o la seduzione al campo avverso. E' tipico di ogni regime criminoso, qual era il nazismo, di svigorire e confondere le nostre capacità di giudizio. E' colpevole chi denunzia sotto tortura? O chi uccide per non essere ucciso?"
E tuttavia anche così Levi riflette non su un dato astorico, bensì su uno storico. Infatti prosegue:
"La coscienza generalizzata che davanti alla violenza non si cede, ma si resiste, è di oggi, è del dopo, non è di allora. L'imperativo della resistenza è maturato con la resistenza, con la tragedia planetaria della Seconda Guerra Mondiale; prima era prezioso patrimonio di pochi. Neanche oggi è di tutti, ma oggi chi vuole intendere può intendere,…"
Toccantissimo quello scritto da Fiano ieri. Il taglio della lingua, degli occhi, il dover viaggiare con escrementi e morti per giorni interi in carri bestiame. Quando si parla di Olocausto da sempre ( non so' forse in un' altra vita 70 anni fa' son stato ucciso dai nazifascisti anch'io, magari o sicuramente in un campo di sterminio), mi son sentito e addirittura ho fortemente desiderato di essere un ebreo. Per scherzare a volte sul lavoro facevo finta di esserlo o di chiamarmi qualcosa tipo Levi non per il gusto fortissimo che ho sempre sentito nel cercare di far business, ma proprio per grandissimo amore che ho sempre sentito e provato per i sterminati da Mussolini e Hitler. Zero compiacimento o ipocrisia in qs ( chi mi conosce sa' sono proprio l'opposto di un compiaciente lecchino). Grandissima ammirazione per suo padre Nedo Fiano, zero ipocrisia, sottozero retorica...io la flessibilita' del cervello e la tolleranza di chi e' diverso da me da ogni punto di vista la cerco di applicare per davvero e non la uso solo per far marketing
Gino G. specifico solo 1picola cosa in quello ke hai scritto.. Tu kiami la Shoà "Olocausto" vorrei precisarti ke "Olocausto" nn è il termine corretto poikè Olocausto significa letteralmente "sacrificio" e questa parola fa pensare ke la Shoà sia stata 1sacrificio degli ebrei in nome d qualcosa. Invece come scrive Bidussa, il termine Shoà significa "annientamento" e purtroppo era proprio questo, l'annientamento degli ebrei l'obiettivo dei nazisti. Obiettivo fallito. E noi tutti lo ricorderemo vivi, vivissimi ogni 27 gennaio. E xsonalmente ogni giorno della mia vita.
Grazie Giorgia, io per Olocausto intendevo la persecuzione e gli assassinii che i fratelli ebrei han subito, ma oggi ho imparato che il significato di Olocausto e' un altro. Grazie again
Gino Ginello