Quei canti passati per il camino
di Fausto Amodei
Non è da ieri che Leoncarlo Settimelli si occupa di musiche e canti legati all'universo della Shoah. Nel 2001 aveva pubblicato presso Marsilio, Dal profondo dell'inferno-Canto e musica al tempo dei lager, in cui spaziava dai primitivi campi di lavoro, ai ghetti, ai campi di concentramento e di eliminazione veri e propri. Su l'Unità del 15 maggio 2003 ritornava sull'argomento con un brillante servizio su Jacques Stroums, un ingegnere ebreo di Salonicco che, essendo violinista, ad Auschwitz aveva fatto parte dell'orchestra del lager e, sopravvissuto, si impegnava ai giorni nostri, a testimoniare, con i suoi racconti e con il suo violino, la tremenda esperienza vissuta. Vi si documentavano due diversi tipi di musica che nei «campi» venivano eseguiti: un fox-trot, Serata nel piccolo bar, eseguito probabilmente «per allietare compleanni del capo del lager e dei suoi immediati sottoposti»; e la straziante melodia, che lo Stroums esegue col violino, della canzone Eli Eli scritta da una partigiana internata ad Auschwitz, prima di morire. Perché nei lager e nei ghetti, la musica in tutti i suoi aspetti e le sue valenze fu costantemente composta, scritta, strumentata ed eseguita, da professionisti e da dilettanti, da prigionieri politici e da deportati razziali, da gente senza speranza e da gente che ancora voleva lottare per sopravvivere e creare un avvenire migliore. C'è l'Istituto Musica Judaica di Trani che ha edito su CD una raccolta La produzione musicale nei campi di concentramento, curata da Francesco Lotoro, che propone l'intero corpus musicale (dalla musica più colta e sperimentale alla musica leggera, al cabaret, al jazz, fino al canto religioso e popolare tradizionale) composto dal 1933 (anno d'apertura dei campi di Dachau e Bögermoor) al 1945, ad opera di musicisti imprigionati o deportati o uccisi o sopravvissuti, provenienti da ogni contesto nazionale, sociale o religioso nei Campi di prigionia, transito, concentramento e sterminio. Composto di ben 2600 opere, contiene brani strumentali e/o vocali, che non si penserebbe mai potessero nascere in quel contesto. Basti citare un Concertino per pianoforte ed orchestra di Szpilman (proprio quello del Pianista di Polanski) scritto nel Ghetto di Varsavia, o il Quartetto per la fine dei tempi, scritto dal compositore francese Olivier Messiaen, prigioniero di guerra nel campo di Terezin, per un organico piuttosto inusuale (piano, clarinetto, violino e violoncello) perché quelli erano gli unici strumenti disponibili; o ancora un'opera, Brundibàr, nata nel campo di Terezin, nota come L'Opera dei bambini che vanno a gas, composta dall'internato Hans Kràsa, e recitata dai bambini del lager.
Il disco di Settimelli documenta il filone dei canti a carattere di «resistenza», assimilabili al «canto di protesta». Intende cioè essere un disco «militante» e non di pura documentazione storico-filologica. Anche per questo, cioè per fornire canzoni che possano essere riprese e ricantate da un pubblico italiano, esse sono eseguite in traduzione ritmica, accettando, per altro con innegabile perizia, le asincronie e le dissonanze che nascono dalla sostituzione di ritmi, cadenze ed accenti delle lingue originarie, con ritmi, cadenze ed accenti italiani. Nei dodici brani sono documentati alcuni fra i diversi atteggiamenti e stati d'animo indotti dalla vita del lager. Si va dal lamento, qui anche una sfida nei confronti delle guardie, di Die Moorsoldaten, al pianto straziato di Crematorio nera porta, al ludico grottesco di Dieci fratelli, con la sua struttura elencativo-iterativa, al contrasto tra la drammaticità del testo e la spensieratezza della melodia di Canzone del Ghetto di Varsavia, alla rievocazione epica e contemporaneamente trepida della bellissima «tetralogia» greca della Ballata di Mauthausen. A ribadire il carattere «militante» del disco, cioè la volontà di fare della «memoria» una questione che non riguarda solo il passato remoto, il disco comprende i più recenti Chaim di Ivan della Mea, ed Auschwitz di Guccini.