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di Furio Colombo
Prodi è un testone che lavora duro e al momento giusto arriva con il programma di tutta l’Unione.
Certo, alcuni di noi vogliono che ci sia anche la “Rosa nel pugno”, e che si costruisca in fretta il tratto di raccordo che manca perché l’Unione rappresenti nel programma tutte le parti. Perché tutte si impegnano per il ritorno dell’Italia alla normalità democratica, per il ritorno in Europa, per il ritorno al rispetto nel mondo e alla vitalità economica del Paese, senza cifre false, senza accuse infantili agli altri, senza penose invocazioni alla lira.
Prodi, che l’altra sera ha tenuto a rispettosa distanza i festosi protagonisti di «Porta a Porta» che pensavano di inchiodarlo con 150 domande, dopo averne rivolte appena una trentina a Berlusconi (eppure ce ne sono di cose da chiedere a qualcuno che ha governato così male, ha danneggiato talmente l’economia, ha vandalizzato a tal punto la Costituzione, ha chiesto una proroga dello scioglimento delle Camere solo per poter incarcerare i ragazzi sorpresi da Fini a fumare spinelli) è pronto ad affrontare chi volete. Basterà aprire la televisione italiana, come se fosse quella belga o quella finlandese (non c’è bisogno di pensare a quella americana). Basterà lasciar circolare giornalisti normali, senza crisi d’ansia o ragioni di antica sottomissione verso il personaggio al potere. Basterà che i telegiornali diradino appena un po’ i riferimenti al tremendo pericolo di armate di no global in procinto di calare le Alpi. Basterà evitare la ripetizione un po’ maniacale della parola “Luxuria” con cui persino l’ex presidente della Camera ritiene di poter condurre la campagna elettorale (o di esorcizzarne l’esito).
Nessuno di noi sogna di conoscere il contrapposto programma di Berlusconi. Ci basta, per credergli, l’evento purtroppo noto nel mondo come contratto con gli italiani. Ma ora che l’Unione ha presentato il suo progetto la sfida è semplice e inequivocabile: basterà darne notizia.
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- «Impossibile alterare il Dna».
- «Sì, ma è facile alterare la notizia».
Sono le battute di due protagonisti di un intrigo politico nel film: «Spartan» del commediografo americano David Mamet.
«Non c’è bisogno di dittature, bastano i media», spiega Umberto Eco a Fabio Fazio in una recente apparizione a «Che tempo che fa». E anche: «quando vado all’estero mi battono la mano sulla spalla in segno di compatimento e di solidarietà. Hanno paura che possa capitare anche a loro».
Come sapete la trasmissione di Fazio sarà oggetto di “ispezione” (come direbbe il ministro Castelli) per avere ospitato in trasmissione i coniugi Prodi, Eco, e anche me, ricordate? Quando ho avuto occasione di dire che, come Eco, mi vergogno di andare all’estero e incassare il compatimento «perché siamo governati da una barzelletta che cammina». La frase ha mandato in bestia Cicchitto e Bondi. Ma è stata una affermazione mite, se pensate che Berlusconi si allea (e se ne vanta) con fascisti che - oltre a offendere dirigenti e militanti di An che hanno affermato con convinzione di avere abbandonato il fascismo e sono giustamente creduti dai democratici - sbandierano apertamente disprezzo per la Shoah e vessilli repubblichini, e minacciano di morte (e-mail del 9 febbraio, ore 2.14 di notte, «non sei degno di stare al mondo») chi osa denunciare il nuovo legame fra il “liberale” (definizione di Vespa in uno dei «Porta a Porta» dedicato a Berlusconi) e i fascisti di una misteriosa polizia parallela che la vera polizia italiana ha buttato all’aria, ma che evocano paurosamente gli squadroni della morte di matrice sudamericana in Cile e Argentina (alle ore 19,24 di sabato 11 febbraio è giunto un nuovo messaggio di ingiurie e minacce dei fascisti di Saya alleati di Berlusconi, e un’invocazione a votare per Berlusconi di cui si parla in un’altra parte del giornale).
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Ma se è vera la battuta di David Mamet, «non puoi truccare il Dna ma puoi truccare la notizia», tenete presente una ricerca-rivelazione condotta dalla trasmissione «Tv Talk» (Rai Tre, ore 7.30 del mattino, 10 febbraio). In essa si apprende che nel «Porta a Porta» dedicato a Berlusconi il presidente del Consiglio ha ricevuto 29 domande (alcune poco più di un colpo di tosse) da Bruno Vespa. Ma quando si è trovato davanti Romano Prodi, le domande di Vespa sono diventate improvvisamente ottantotto.
Interessante anche il totale delle domande, e dunque la differenza di metabolismo, dei direttori ospiti che hanno il compito di animare il programma a nome dei cittadini. Non più di ventinove caute domande a Berlusconi, una sessantina a Romano Prodi. Ma certo Prodi non è mai stato una minaccia per le loro carriere.
Interessante la risposta di Vespa, come riportata da Paolo Conti sul «Corriere della Sera» (11 febbraio): «Non conto le domande durante una trasmissione. La loro quantità dipende dalla rapidità delle risposte». Traduzione: Vespa è il solo conduttore del mondo democratico che offre una sedia, un microfono e una telecamera a un uomo di potere affinché usi questi strumenti pubblici per il suo monologo, poco interrotto e mai disturbato.
Come i lettori sanno o immaginano, queste affermazioni porteranno immediatamente ad altre querele di Vespa al giornale e a me. Tentare di fare terra bruciata intorno alle critiche è il marchio di fabbrica di questo governo e di tutta la corte di persone che gli sta intorno. In questo caso, è un peccato che l’ombrosità e il provincialismo del commentatore televisivo che fa da padrone sulla scena tv italiana non sappia che il puro e semplice accettare di stare dignitosamente da una parte o dall’altra del mondo, lo metterebbe in compagnia di notevoli talenti giornalistici come William Buckely e Pat Buchanan che per anni hanno dominato il giornalismo televisivo americano di destra e hanno dato sale e credibilità ai loro programmi cominciando con il dichiarare agli ospiti le loro scelte politiche. E ciò rendeva ricco e leale il confronto con le diverse opinioni.
Poi, certo, ci sono anche gli implacabili arbitri dei vari dibattiti politici. Nessuno di loro potrebbe allo stesso tempo presentarsi come credibile e imparziale conduttore e allo stesso avere fatto da notaio per la firma del “contratto elettorale” di una delle due parti, ed essergli stato accanto (non è una accusa, è una constatazione, riflessa con chiarezza anche nel suo ultimo libro) per i cinque anni di questo governo.
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«Ma se la televisione non contasse niente?» si domanda in un editoriale Pierluigi Battista («Il Corriere della Sera», 6 febbraio) «È così bizzarro e demenziale, mentre tutti si azzannano per strappare qualche secondo, sostenere che la TV conta, sì, ma non in modo determinante?».
La domanda è legittima in ogni altro Paese del mondo industriale avanzato. Ma temo che sia un po’ azzardata nel Paese - unico fra tutti, e indicato come tale da tutti - in cui uno solo possiede tutto, controlla tutto, e dove non possiede o controlla, pesantemente influenza. E quell’uno non solo è uno degli uomini più ricchi del mondo ma è anche il capo del governo. Dire in Italia che «la televisione non fa vincere» è un po’ come dire in terra di ’ndrangheta che «il delitto non paga». Non è una affermazione sbagliata. Ma purtroppo è irrealistica.
Naturalmente è ragionevole sostenere che Berlusconi non vincerà neppure piegando - come sta facendo - tutta la televisione a suo uso e consumo. Non c’è dubbio che Berlusconi sia oggettivamente danneggiato dal confronto continuo e inevitabile con Ciampi, che ricorda ai cittadini l’esistenza di un’altra Italia che non fa i propri affari. E sia danneggiato dal modo in cui Prodi - con le famose risposte brevi a «Porta a Porta» - non solo ha respinto i suoi vispi interlocutori colti da improvviso risveglio ma, quando necessario, li ha fermati e gelati con tono debitamente grave: «dice sul serio o sta scherzando?» (Come quando gli era stata proposta l’idea che «Berlusconi porta il sole», con un curioso riferimento alla follia nel teatro di Ibsen).
Però viene in mente il fulminante dialogo di Altan. Operaio: «Ma scopare sarà così bello?», Cipputi: «Stai tranquillo. Altrimenti lo farebbero fare a noi».
Viene in mente l’immenso uso di televisione gettato nella sua campagna elettorale da George Bush contro il suo avversario Kerry, l’uso di documentari per screditare il passato militare di Kerry, la smentita imposta a Dan Rather, conduttore delle CBS News, che si era impossessato di carte che dimostravano come Bush si era sottratto, con l’aiuto del padre, alla guerra nel Vietnam.
Viene in mente, soprattutto, quella straordinaria parabola del potere televisivo che è «Truman Show». Si parla spesso di quel film come metafora, dimenticando il senso letterale di quel racconto. È la storia del paesaggio deformato. Una volta che tutti i dati sono stati alterati, una volta che tutti i riferimenti sono stati omologati, soltanto uno straordinario atto di ribellione ti può sottrarre dalla finzione, ti può spingere a tentare di raggiungere quella porta sul fondo di un finto cielo azzurro tipo Forza Italia.
Ricordate? Prima di raggiungere quell’unica via d’uscita il ribelle viene trattato un po’ come matto e un po’ come fuori legge. Deve fingere, tenersi alla larga, e poi tentare di attraversare un mare finto.
Il mare è finto ma la tempesta, scatenata dalla regia, è davvero pericolosa. Pericolosa almeno tanto quanto la minaccia dell'altro ieri di Berlusconi di intervenire a reti unificate con un proclama che si sarebbe sovrapposto alla voce del Presidente della Repubblica, prendendo a pretesto una marea di no global che - ci diceva il premier - stavano assediando Torino.
C’era anche il preannuncio di «misure durissime» con riferimento a fatti che non erano accaduti. Ma immaginate per un istante il rischio del Paese se Berlusconi avesse avuto o avesse mai quel 51 per cento di cui parla sempre e che gli appare la sola condizione per governare.
È a questo proposito che Giovanni Sartori si domanda «se la democrazia può uccidere la democrazia», ricordando quante sciagure sono state provocate (o sono state sul punto di essere provocate) da un legittimo voto. E ciò serve a Sartori per dire che la democrazia non è solo il voto ma è l’insieme delle condizioni giuridiche, culturali, psicologiche, che consentono la vita democratica e la nutrono. Staccare la televisione dal paesaggio vero e puntare camere e microfoni su dati falsi, notizie false e circostanze costantemente alterate, crea un danno grave alla democrazia, dunque alla sopravvivenza della libertà.
Berlusconi conferma tutto ciò con il suo impegno accanito contro quello straccio di garanzia detta «par condicio», meccanismo minimo che permette, anche nelle condizioni pessime della nostra libertà di informazione, di non oscurare tutte le voci. Per questo è impossibile non notare la strana affermazione di Carlo Rossella, direttore del TG 5, che sulla «par condicio» dice («Corriere della Sera», 31 gennaio): «Non mi va, mi ribello, sono un professionista. Se dovrò pagare una multa la pagherò, ma non voglio limiti». Per dire queste cose bisogna ignorare il tempo, il luogo, le circostanze. Il telegiornale diretto da Rossella fa parte della televisione che appartiene all’uomo più ricco del mondo che può pagare quelle multe come una mancia. Il Direttore è certo un professionista. Ma potrebbe Schumacher affermare che lui sulle strisce o ai semafori non si ferma, perché è un professionista della guida? Quando una parte rifiuta le regole, un paese si salva invocando le regole. È ciò che ha detto Ciampi.
Non si può istituire una Tv a punti, come la patente. Ma certo fa impressione il dislivello fra le non domande fatte a Berlusconi e la scarica di domande riservate a Prodi, nel corso della stessa trasmissione, da parte delle stesse persone.
Vuol dire che Prodi, Fassino, Rutelli e tutta l'Unione cominciano a ingombrare il paesaggio e a dimostrarne i tratti falsi.
Certo sarebbe bello se alcuni candidati del centrodestra che non sono gli uomini più ricchi del mondo, non possiedono una buona parte dei media e non sono in grado di intimidire direttamente non solo i giornalisti ma anche i consigli di amministrazione delle varie testate, decidessero di pretendere, magari in vista di un loro futuro di opposizione, una televisione libera e un accesso rispettoso garantito a tutti, invece di scherzare un po’ indecorosamente su Luxuria, mentre si affacciano ai margini delle inquadrature dedicate esclusivamente a Berlusconi.
Apparirebbero, pur restando dalla loro parte, una sorta di garanzia di un bene comune. Strano che non lo capiscano. Ma forse cinque anni con Berlusconi sono troppi per uscirne con rispetto di sé e degli altri.
Ma quando Berlusconi invoca per se il 51% dei voti non si accorge che così cerca legittimazione di una dittatura attraverso il voto popolare? ma quanto è imbecille quest'uomo?
BASTA SEGUIRE LA RASSEGNA STAMPA DEL TG5, OGGI 12.02.06 PRIME PAGINE DI TUTTI I GIORNALI (UNITA' COMPRESA) MA ASSENTI REPUBBLICA, CORRIERE DELLA SERA, LA STAMPA
Intervista di Luttazzi a Marco Travaglio, l'ho ripescata in rete ;-)