Mafia, il Servitor Contrada
di Vincenzo Vasile
Bruno Contrada, l’ex numero tre del Sisde condannato a dieci anni per associazione mafiosa, s’è difeso ieri in un’intervista a Skytg24 contrattaccando. Sostiene di avere «servito» per trent’anni lo Stato che «come spesso accade, è ingrato nei confronti dei suoi uomini». Dai pentiti, «un pugno di manigoldi, feccia della società» sarebbero state raccolte solo calunnie e menzogne. Il periodo a cui l’ex funzionario si riferisce va dai primi anni Sessanta al 1992 (anno delle stragi e dell’arresto del funzionario), e sono anni cruciali della storia della mafia, dell’antimafia e in definitiva dello Stato e della società italiani.
C'è da dire che - qualunque sia la sorte giudiziaria che dopo l'ennesimo ricorso toccherà a Contrada - almeno una sua affermazione possa essere condivisa, e proprio quella che appare più difensiva e sconvolgente: ha ragione Contrada a dire di aver «servito» lo Stato in quei trent'anni, con ciò chiamando in correità residui testimoni e protagonisti di quella stagione. Che inizia ancor prima, con il prologo della “lotta al banditismo” siciliano nei primi anni della Repubblica. Quando ancora Contrada non era neanche entrato in polizia e non aveva messo piede in Sicilia, e - ormai ci sono libri di storia - lo Stato e i suoi “servitori” usarono per «mettere ordine» in un pezzo d'Italia insanguinato una vecchia ricetta praticata in verità sin dagli albori dello Stato unitario. Cioè pensarono di “usare” la mafia perché consegnasse i banditi, e intrecciarono - lo Stato e molti suoi servitori dell'epoca - un rapporto perverso, che per la mafia significò legittimazione con un ruolo “d'ordine”, e per lo Stato una pericolosa e duratura compromissione.
Tutto si basava su un cinico “do ut des”. Tu mi porti - vivi o morti, meglio morti - i banditi (che fino ad allora erano asserviti alla mafia), e io cancello i miei dossier e prometto di girare le spalle dall'altra parte quando si tratterà di colpire il potere mafioso, nell'edilizia, nei piani regolatori, negli appalti. A Portella della Ginestra (1947) già si sarebbe potuto e dovuto capire che questo schema non funzionava: la prima strage di Stato la consumò una banda asservita alla mafia e a chissà chi, piena zeppa di informatori e infiltrati di corpi dello Stato neonato. Poi i banditi vennero mollati dalla mafia, e lo Stato a suo modo ringraziò concedendo impunità ai mafiosi.
Nasce da qui la coriacea potenza dei Corleonesi, che sarebbero in breve divenuti i padroni di Cosa Nostra. Su questo itinerario si è compiuto un lungo viaggio. Sfogliando i giornali degli anni Sessanta e Settanta si possono ancora leggere i “rapporti” di polizia e carabinieri - in lotta tra loro, ma su questo d'accordo - che dipingevano una volta l'una, una volta l'altra fascia mafiosa come interlocutore affidabile e “moderato”. Ricordate? C'era una vecchia mafia che non vuole la droga, la nuova sì, c'è la vecchia mafia che rinnega le stragi e gli omicidi, l'altra li organizza. Vecchi e nuovi, buoni e cattivi: non era vero. Nel martirologio delle vittime eccellenti di Palermo alcune furono accusate post mortem in qualche modo di aver tradito questo scambio di favori, questo “patto” non scritto, ma ritenuto da Cosa nostra vincolante. Poi avviene qualcosa: alla fine degli anni Settanta, quando in magistratura, in polizia e nei carabinieri entrano uomini nuovi, e non è un caso che ci sia stato lo spartiacque del Sessantotto. Squadra Mobile, Procura, Tribunale: Boris Giuliano, Ninni Cassarà, Gaetano Costa, Rocco Chinnici, Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, alcuni dei quali negli atti del processo di Contrada risulta quanto e come diffidassero dell'imputato, appartengono a questa nuova stagione. A un nuovo metodo di lotta alla mafia, che sono stati poi decapitati con i kalashnikov e il tritolo.
Quegli uomini ruppero dichiaratamente quel “patto”, e con ciò si esposero in prima fila. Quando si dice e si scrive che furono «lasciati soli», questo si vuol dire. Essi servivano lo Stato in altro modo rispetto a Contrada, che lavorava nell'ufficio accanto, legatissimo all'establishment (che non ha, dunque, tutti i torti a urlare contro gli “ingrati”). Anzi: servivano un altro Stato, rinnovato e ripulito dalla presenza mafiosa, che intendevano far nascere dentro le strutture e le incrostazioni del passato.
Comunque vada a finire la terribile vicenda del superpoliziotto, c'è da riflettere e operare perché tutto ciò non torni mai più ad accadere.
A cominciare dalla “pulizia” delle liste elettorali, che un'improvvida esternazione del presidente della Camera ha appena reclamato nei confronti dei giudici che quell'antico “patto” vogliono cancellare.
io sono con il dottor Contrada,credo fortemente alla sua innocenza,e sono contro le meschinità che lo stato e riuscito a tramare contro questo gande dirigente,e umile servitore dello stato.Non si puo'invece difendere gente come Brusca dopo aver commesso delitti efferati,come uno dei più malvaggi misfatti e cioè la morte del piccolo Di Matteo.
Anche io sono con il dott. Contrada... un eroe, secondo me... è sopravvissuto a tutto quello che gli è successo senza battere ciglio e scendere a compromessi accusatori... un grande soldato e servitore dello stato.