Velocity non la puoi raccontare. Esiste solo nella fantasia di chi decide di alzarsi alle quattro di una domenica mattina, sfidare buio, pigrizia, sonno e fatica per far parte - almeno per un'ora - della razza immortale che in giro per il mondo pedala su una “fixa”, dando un contributo significativo alla salute del pianeta e dell'umanità. Per chi non sa di cosa si sta scrivendo, diciamo che Velocity è una corsa in bicicletta che si svolge senza auto di appoggio, senza assistenza, senza percorso, senza staffette, senza autorizzazioni. C'è una partenza, un arrivo e (almeno questa volta) quattro checkpoint da raggiungere per ottenere il timbro che consente di accedere al successivo.
Ritrovo alle 5:30 in via Solari, per raggiungere la partenza. Sulla strada un incontro surreale. Sentiamo gridare “fermiii... fermiii...” E' Franco, che a quell'ora del mattino era impegnato in un'opera condivisibile e meritoria: strappare i manifesti fascisti, quella robaccia di AN che dice “basta no global”. Un incontro incredibile, a quell'ora, in quel posto. Franco li sta strappando con cura, uno per uno, ma c'è un'auto che lo insegue, evidentemente con intenzioni bellicose. Circondiamo Franco, l'auto è sorpresa, non si aspettava una “scorta” così nutrita (neanche Franco del resto), svicola. Accompagniamo Franco fino a casa, lì vicino. Lui corre tra le bici, noi pedaliamo piano. Lo salutiamo e riprendiamo a pedalare forte fino alla partenza, in uno scenario da dopobomba urbano, dietro via Varesina, tra autostrade, edifici industriali, ferrovia e cemento.
Una trentina di pazzi, colorati e assonnati, aspettano la consegna del foglietto con l'elenco dei checkpoint, custodito gelosamente da Menthos.
Sono le 6: 30.
Bici a terra, Menthos infila l'elenco dei checkpoint tra i raggi e grida un “bellalì”. E' il segnale, si parte. I primi, quelli che vinceranno, sono di una razza diversa. Pedalano come alieni su macchine essenziali ed efficientissime, spingendo rapporti impossibili, come se avessero un motore nascosto nel movimento centrale. E' un attimo, poi non li vedi più, resta solo un puntino rosso del lampeggiante posteriore che scompare in fretta.
Dopo di loro, il gruppo degli esseri umani. Si spinge come dannati, si scambiano battute, nonostante il fiato subito corto, mentre ci si lancia verso il primo checkpoint, il bar alla Stecca degli Artigiani (uno di quei luoghi magici di cultura e aggregazione che l'amministrazione cittadina vede come il fumo negli occhi). Giò e Adriano mettono il primo timbro, ma pretendono che ogni concorrente trangugi una cospicua dose di vodka. Fortunatamente non sono fiscali, altrimenti la “razza immortale” verrebbe decimata dopo dieci minuti di gara. Possiamo fare il bel gesto e versare il micidiale liquido sul pavimento.
Il secondo checkpoint è in via Cenisio, si raggiunge in pochi minuti, soprattutto se ci si lancia come forsennati, in pieno contromano, attraverso il viale del cimitero Monumentale. La fronte cola sotto il casco, le gambe sembrano già di legno, il fiato è corto. Ecco subito il checkpoint, con Coda di Lupo e Marghe con le brioches fresche, ne addenti una e guadagni il timbro. Meglio della vodka per fortuna.
Terzo checkpoint, a due passi da piazza Napoli. In un anfratto improbabile di via Cola di Rienzo c'è Cronman, serissimo, al tavolino, che ti concede un timbro solo se rispondi giusto a una ciclodomanda. A noi tocca azzeccare la data della vittoria olimpica di Vanni Pettenella, facile per fortuna, Tokyo 1964. La maglietta è tanto bagnata che sembra sia stata estratta dalla lavatrice, ma va bene così. E' il momento di mettere il mnanubrio in direzione dell'ultimo checkpoint, la stazione ferroviaria di Porta Romana, a piazzale Lodi.
E' una galoppata fantastica lungo la circonvallazione che per oggi è un toboga su cui i gatti randagi scaricano quello che resta nelle loro gambe. Non ci si ferma mai, non ci sono semafori rossi, sensi unici che tengano. Le poche auto annichiliscono in mezzo alla strada, non capiscono cosa succede, da dove spuntano quei pazzi, non definibili con la categoria del ciclista attillato. Hanno i pantaloni arrotolati, il casco decorato da teschi e scritte “No Oil” o “One less car”, corrono con la borsa Timbuk2 o Chrome a tracolla. Roba mai vista, roba inquietante. Si raggiunge la stazione facendo lo slalom tra le auto, volando contromano su corso Lodi, si molla la bici vola giù dalle scale, fino al binario 1 dove c'è Invel, volto amico, in uno straordinario contorno di grigiore urbano, che regala l'ultimo timbro, il via libera per l'arrrivo.
E' quasi fatta, restano le scale per risalire al livello della strada, sembrano l'Everest con le gambe in queste condizioni, non credi di potercela fare. Invece l'odore del traguardo a poche migliaia di metri funziona come doping. Piazzale Lodi in contromano, poi i viali fino all'arrivo di Ettore Ponti, di fronte alla ciclofficina Barona. Tagliare il traguardo è una sensazione unica, indescrivibile. Di gioia, soddisfazione, orgoglio. Oggi il nostro sudore ha reso più umana la città schiava delle auto, dell'alienazione, delle code.
Loro sono già là da un po', gli alieni, Pigi e Simon che hanno tagliato assieme il traguardo per primi. Sembrano esseri umani, ma in realtà se li vedi in bici capisci che sono gatti randagi venuti da Marte. Simon offre tabacco da fiuto alla menta, ci sono le briches superstiti e il tè caldo di Giò alla ciclofficina. L'adrenalina scende, l'allegria rimane. Quasi 25 chilometri di città, meno di un'ora di gioia e sensazioni impagabili. L'ultimo caffè, tutti assieme, poi a fare una doccia prima di rivedersi in via Tortona allo standi di “Fai la cosa giusta”.
PS per Coda di Lupo: cortesemente, mi consenta di dirle che è stata un'organizzazione fantastica. Grazie a tutti, siete grandi.
Bellalì.
questo articolo è stato scritto per Ciclistica.