«La destra uccide i diritti. Ma Parigi non ci sta»
ROBERT GUÉDIGUIAN Il regista francese, molto attento ai temi del lavoro anche nei suoi film, ha partecipato alle proteste contro la legge sul primo impiego
di Lorenzo Buccella
«Sono al cento per cento con loro, tant’è vero che l’altro giorno ho partecipato anch’io alla manifestazione per dichiarare apertamente il dissenso contro il Cpe, questo progetto di legge che vuole distruggere i diritti sociali legati al contratto del lavoro».
Basta avvicinarsi alla fiamma dell’attualità francese, legata alle proteste di massa contro la precarizzazione del lavoro e il licenziamento facile che Robert Guédiguian non le manda certo a dire. In questi giorni, il regista marsigliese di film ad alto coefficiente sociale come «Marius e Jaennette», «A l’attaque», «Marie-jo e i suoi due amori» è tra gli ospiti dell’Infinity Festival di Alba, invitato dal direttore Luciano Barisone a un colloquio pubblico sul tema del «pudore». Una buona occasione per farci raccontare, a margine dell’incontro, le impressioni in presa diretta su questi ultimi e tormentati avvenimenti. «In Francia- spiega Guédiguian- da quando la destra è tornata al potere non ha fatto altro che cercare di sopprimere ogni forma di tutela in nome della libertà del mercato.
Ma se da una parte provo una grande rabbia di fronte alla violenza di questi decreti, dall’altra mi rende felice riscoprire un Paese che dimostra ancora la capacità di mobilitarsi nelle piazze. Una partecipazione che vede unite intere generazioni, radunando fianco a fianco insegnanti e studenti, genitori e figli, pensionati e adolescenti. Ed è un evento formidabile, perché vuol dire che niente è ancora perso».
E se niente è perso vuol dire anche che c’è ancora la possibilità di una via d’uscita davanti a questo conflitto sociale?
«Adesso la palla era passata nelle mani di Chirac che è un uomo di destra ormai sorpassato e poco credibile. Nel discorso di venerdì sera alla tv il presidente ha tentato un inutile compromesso che ha scontentato tutti. Per questo la mobilitazione continuerà».
Nel suo ultimo film dedicato alla figura di François Mitterrand, l’anziano presidente socialista diceva che «per andare avanti c’è bisogno di un culto dell’indifferenza». Oggi, di fronte a questa protesta di massa, de Villepin e colleghi possono rimanere indifferenti?
«Non credo che le due cose possano essere paragonate, perché la frase di Mitterrand si riferiva all’indifferenza da tenere nei confronti dei piccoli dettagli, quando tutto si inserisce in una visione globale che tiene conto della storia e della lungimiranza di un progetto. Le manifestazioni di queste ultime settimane invece sono cose enormi. Insomma, tutto fuorché un dettaglio o addirittura un guasto antidemocratico come vogliono far passare molti esponenti della destra».
In che senso?
«Se c’è una cosa che mi dà molto fastidio è il discorso di quelli che dicono che la democrazia non si fa sulle strade. Io la penso all’esatto opposto e ci mancherebbe altro. La democrazia non può ridursi a un fatto puramente tecnico che si espleta andando a votare una volta ogni 5 anni, lasciando libero campo d’azione ai deputati fino alle elezioni successive. No, la democrazia è una battaglia quotidiana che passa anche per le strade, quando è necessario. E a chi dice che non bisogna cedere al potere della piazza, io rispondo che in realtà è la piazza il vero potere».
Lei ritiene che il mondo del precariato possa oggi in qualche modo riecheggiare quella condizione sociale che nel passato ha avuto la classe operaia, al centro di tanti suoi film?
«In termini stretti, direi di no, perché i processi lavorativi non sono più gli stessi e quell’universo operaio, legato alla realtà dell’industria, non esiste più. Al massimo, è possibile qualche paragone, solo se allarghiamo il discorso alla condizione disagiata che attualmente provano sulla propria pelle i precari di fronte ai loro primi impieghi. Tanto più che bisogna tener conto che la condizione di precarietà non riguarda solo i più giovani, ma coinvolge un’ampia fetta della società che comprende anche i laureati, toccando tutte le possibili professioni. E allora, se abbracciato da questa prospettiva, quel mondo variegato può rappresentare una sorta di avanguardia indicativa».
Secondo lei, qual è il rapporto che il cinema e le sue storie possono intrattenere con una realtà così complessa e infiammata?
«C’è il cinema direttamente militante che registra e testimonia queste manifestazioni magari sotto forma di documentario, ma è un approccio che io non ho mai adottato, perché preferisco un altro tipo di cinema. Quello che vuole preservarsi come spazio di libertà e di interrogazione, soprattutto se confrontato alla società mediatizzata in cui ci troviamo immersi. Una dimensione che è possibile grazie all’orgoglio e all’irriducibilità di quegli autori che s’impegnano sempre per dire la loro verità, non la verità tout court. Con tanto di punti di vista personali e libere versioni dei fatti che difficilmente potrebbero venir veicolati dagli altri media. In fondo è questo il vero compito di un cineasta».
Un cinema che non fugge davanti alle grandi questioni politiche e sociali, ma che al tempo stesso cerca di mantenersi popolare…
«In quanto autori, ci si deve assumere una responsabilità che non è solo quella della forma e delle modalità della narrazione, ma anche quella di voler cercare di parlare al più largo pubblico possibile. Soltanto in questa dimensione “commerciale”, i fenomeni possono essere duraturi. Tutti i cineasti che credono che il cinema sia uno spazio di libertà devono battersi perché i loro film vengano visti dal maggior numero di persone. Guai a ripiegarsi su se stessi! Questo è il più grande pericolo in cui rischia di inciampare il cinema d’autore contemporaneo».
Dopo i tanti affreschi di gente senza potere e il ritratto di un uomo come Mitterrand che invece il potere l’ha conosciuto ed esercitato, cosa ci dobbiamo aspettare dai suoi prossimi lavori cinematografici?
«Ho appena finito un film che spero venga selezionato a Cannes. Si tratta di un viaggio in Armenia, mio luogo d’origine, fatto con i miei attori abituali che qui interpretano due “rappresentanti” della diaspora armena. Mi interessava filmare quelle terre, perché penso che laggiù stiano succedendo delle cose che riguardano un po’ tutti. L’Armenia è un ex-paese sovietico dove il capitalismo nascente ha mostrato il suo volto più selvaggio, ma l’Armenia è anche uno dei paesi cristiani più antichi, con un ricco patrimonio culturale alle spalle. Il film cerca di portare a confronto queste diverse realtà coesistenti, raccontando problemi che sono comuni a tutto il mondo contemporaneo in modo universale».
È stato anche un modo per rivisitare le sue radici armene?
«Più che un ritorno alle radici, è stata la prova ulteriore che abbiamo più identità, non una sola da risalire in modo regressivo. Può sembrare strano ma io non penso che le nostre radici siano alle nostre spalle. L’identità è un proiezione nel futuro, qualcosa che sta davanti a noi e non dietro. Qualcosa che si costruisce e ci si fabbrica solo strada facendo».
Sono pienamente d'accordo con l'opinione del regista francese. La democrazia nasce nelle piazze e tra la gente. I partiti politici dovrebbero garantire il collante tra gli organi dello Stato e la popolazione civile. In Italia questo concetto non è mai stato applicato. Gradirei che venisse presa in considerazione questa ipotesi altrimenti .. w le primarie e w la partecipazione della società civile ... abbasso i partiti politici vera oligarchia