A cosa serve un partito
di Alfredo Reichlin
È tempo di rendere chiare le ragioni di fondo e il disegno strategico che fondano una operazione come quella di dar vita a un grande partito riformista. Davvero non basta decidere le date e il gruppo di comando. Un partito vero non può nascere da una necessità contingente ma dal fatto che è venuto in gioco qualcosa che riguarda il destino del paese, cioè dal fatto che siamo in una situazione che necessariamente rimette in discussione la struttura politica esistente.
Siamo, oggi, in Italia a questo punto? Al punto cioè che è venuta al pettine una questione che riguarda non le cronache del Palazzo ma la storia del paese? Io penso di sì. E mi sembra stupefacente che gli eredi di partiti con storie secolari che hanno fatto l’Italia e che sono ancora grandi comunità umane non si misurano apertamente con questo quesito.
Sia chiaro che io non parlo così perché non vedo l'anacronismo del sistema politico attuale. Sono convinto che come in altri passaggi cruciali, si tratta di dar vita a una «forza nuova per una situazione storica nuova». Del resto questo fece la socialdemocrazia nordica la quale diventò egemone perché negli anni '30 inventò quel compromesso democratico con il capitalismo industriale e si dette gli strumenti per sostenerlo: il partito di massa, il sindacato, il Welfare.
Questo aveva fatto la borghesia reazionaria italiana quando nel primo dopoguerra, a fronte dell'avvento della società di massa e al fallimento del vecchio notabilato liberale inventò un partito nuovo, mai visto prima in Europa: una forza totalitaria capace di organizzarsi in modo capillare nella società di massa; il partito fascista. Questo fece Togliatti quando trasformò il Pci in un partito di popolo, rinunciando al modello leninista dei «rivoluzionari di professione» per ricollocare la sinistra, sulla base del pensiero di Gramsci, nella storia d'Italia.
Questo è oggi il nostro problema. Se dopo anni di discussioni e di tentativi l'Ulivo non è riuscito - almeno finora - a trasformarsi in un partito c'è una ragione. Al fondo essa è la stessa per cui anche i partiti esistenti si sono svuotati, riducendosi in sostanza a «partiti degli eletti». Voglio dire che perché venga avanti una nuova classe dirigente bisogna fare i conti con la cultura politica che ha dominato questi anni e che aveva scambiato quella che era una crisi organica dello «Stato storico» italiano con i guai creati da una cosidetta «partitocrazia»; per cui una volta liquidata questa, il paese sarebbe tornato normale. In realtà ciò che veniva meno era quello straordinario impasto di fattori economici e politici (dal ruolo dello Stato e dell'economia «mista» fino al compito di mediazione politica e sociale svolto dalla Dc e alla straordinaria funzione di progresso e di garanzia degli interessi popolari a cui assolse la sinistra); cioè quei fattori che avevano trasformato l'Italia povera e contadina in una potenza industriale con un tenore di vita tra i più alti del mondo. Si apriva così un problema grandissimo, che - dovrebbe essere chiaro adesso - non era alla portata di un riformismo sostanzialmente subalterno al cosidetto «pensiero unico». In più si teorizzò la fine dei partiti ma non so quanti si resero conto di cosa ciò comportava. È evidente che quel ruolo dei partiti e quel sistema politico non erano più proponibili, ma bisognava sapere quale vuoto si creava. Vivevamo in Italia e non a Westminister, e la Costituzione italiana era un così forte strumento democratico in quanto lo era in modo vivente, e ciò per il fatto che, attraverso le identità collettive, si creavano nuovi diritti di cittadinanza e, al tempo stesso, nuove forme di partecipazione e di rappresentanza.
Dopotutto, in ciò era consistita la tanto vituperata democrazia dei partiti, nelle sue luci e nelle sue ombre. La forza dei governi dipendeva in larga misura dalla capacità dei partiti di mediare un arco sempre più ampio di domande: col risultato di condizionarli (a volte anche troppo) ma al tempo stesso di dilatare lo spazio pubblico e di mettere la politica in grado di progettare un futuro attraverso una nuova combinazione delle forze, delle idee e delle culture, certo non astraendo dalle logiche e dalle pressioni del potere economico ma non facendosi schiacciare da esse. Questa fu la sostanza del compromesso democratico col capitalismo. Esso si basava sul fatto che l'economia era di mercato, ma non la società. Questa non si faceva ridurre a una somma di individui tenuti insieme solo dallo scambio economico. Era una umanità. Ciò che la caratterizzava erano fattori storici, culturali, affettivi, identitari. E fu in questo modo molto concreto che - non dimentichiamolo - è stata costruita la democrazia repubblicana.
È questo il vuoto che si era aperto. Con in più l'avvento di una mondializzazione basata su una drammatica asimmetria tra la potenza di una economia che non ha frontiere e il potere di una politica ancora localistica (ivi compresi i ridotti poteri degli stati europei rispetto alla superpotenza americana). Non è questo, al fondo, che ha costretto i partiti a rattrappirsi in strutture separate dalla società e, soprattutto, ha spostato fuori dalle istituzioni rappresentative il potere vero?
Direi quindi di smetterla con questa ridicola personalizzazione della politica. Se vogliamo porre con i piedi per terra la prospettiva di dare anche all'Italia un più forte partito riformista e di governo, bisogna partire dalla necessità di rimettere in gioco la società, le persone, il capitale umano. La vicenda politica non è più separabile dalla necessità di ricostruire un tessuto e un potere democratici. Democrazia intesa non solo come Stato, regole e istituzioni ma anche come riconoscimento dei nuovi diritti della persona, del lavoro intelligente, delle nuove capacità delle donne. E quindi democrazia come autogoverno, responsabilità, partecipazione, inclusione e solidarietà. Insomma come l'antitesi di una società molecolare, disgregata e mercatizzata.
Non si dica che questa è una fuga in avanti, rispetto al «qui e ora». In realtà, io sto cercando di rispondere al quesito più concreto che dovrebbe assillarci. Che cos'è nel mondo di oggi un partito? Come è possibile organizzarlo e farlo vivere in una società non più di classe ma degli individui? Dopotutto i grandi partiti erano chi più chi meno «nomenclatura delle classi» e traevano la loro forza dalle fratture e dalle contraddizioni di una società che non c'è più. E oggi?
Il mio timore è che sia vano discutere sulla costituente di un nuovo partito se non si affronta questa questione cruciale: che cos'è e a cosa serve un partito in quella che chiamiamo la società degli individui. Tutti vogliono fare i ministri e a nessuno interessa rispondere a una domanda tanto cruciale? È assolutamente vero che il tempo di quello che si è chiamato lo Stato dei partiti è finito e che non si governa più solo in nome di un blocco sociale rappresentato dal partito e dal sindacato. In più governare significa sempre più dettare regole, arbitrare una crescente complessità e varietà di poteri (non solo economici e non solo nazionali) il che comporta l'uso di agenzie e di strumenti di conoscenza che i partiti non hanno. Ma è una sciocchezza dedurne che non servono più i partiti. Non è così perché la grande novità su cui vorrei si discutesse seriamente è che per garantire il «governo lungo» della società più che mai ci vogliono organismi ai quali spetta rendere chiara e mettere in campo una agenda politica più vasta. Questo è il punto. Il partito come «padrone» della politica di governo recede, ma come fattore guida della comunità assillata da nuovi problemi esistenti e di identità posti da rischi inediti (migrazioni, ambiente, sicurezza, terrorismo, scontri di civiltà e religioni) avanza più di prima sulla scena. Possibile che non si avverta il bisogno di dare al potere politico il fondamento di partiti diversi da quelli attuali, e diversi perchè si pongono come guida etico-politica e come riformatori della società, in quanto capaci di mobilitare forze, intelligenze e passioni?
Sta essenzialmente in ciò - io credo - la forza del messaggio che un nuovo processo politico unitario dovrebbe rivolgere agli italiani. Esso dovrebbe consistere nella chiara volontà di riaprire quel problema cruciale che consiste nella integrazione politica del popolo nella vita statale, e ciò non in modo passivo e subalterno ma attraverso la creazione di una soggettività politica. Questo problema, nel Novecento, fu affrontato con la costruzione dei grandi partiti. È per mezzo di essi che fu possibile coniugare popolo e governo, partecipazione e decisione politica. È stato un fatto grandissimo. Certo, irripetibile in quelle forme. In quali nuove forme allora potrebbe rivivere? Questo è il tema che giustifica davvero l'apertura di un cantiere per la costruzione di un soggetto politico nuovo e più largo. Un partito moderno per la libertà dei moderni.
Forse il giornalista voleva chiedersi: servono ancora i partiti di destra? sono mai serviti a qualcosa? this is the question!
Il nucleo centrale dell'intervento di Rechlin è il seguente:
" Se vogliamo porre con i piedi per terra la prospettiva di dare anche all'Italia un più forte partito riformista e di governo, bisogna partire dalla necessità di rimettere in gioco la società, le persone, il capitale umano. La vicenda politica non è più separabile dalla necessità di ricostruire un tessuto e un potere democratici. Democrazia intesa non solo come Stato, regole e istituzioni ma anche come riconoscimento dei nuovi diritti della persona, del lavoro intelligente, delle nuove capacità delle donne. E quindi democrazia come autogoverno, responsabilità, partecipazione, inclusione e solidarietà."
Cosa si può aggiungere ad una analisi così lucida e spietata di una delle due teste pensanti rimaste nella classe politica italiana ?
L'altra è diventato Presidente della Repubblica.
Per nostra fortuna.
L'abolizione della TV di pasoliniana memoria è una cosa ancora così inconcepibile? tutta questa politica spettacolo mi disgusta, io mi chiedo ma questi politici quando lavorano? sono sempre nei salotti televisivi o in cerca di un microfono ambulante, dove trovano il tempo di occuparsi dei problemi del paese? quando smetteranno di lasciare dichiarazioni a 50 testate gionalistiche differenti nello stesso giorno e si decideranno a occuparsi veramente della gente che sta male? una classe politica di narcisisti e di ipocriti è da buttare via, assieme alla Tv. Propongo una campagna per l'abolizione della TV.
La domanda da porsi è un'altra. I partiti hanno svolto nella storia del nostro paese la funzione per la quale nascono ed esistono ? Hanno avuto al loro interno criteri di selezione della propria classe dirigente trasparente ed identici per tutti i partiti ? Chi può rispondere a queste domande è invitato a farlo. Ho 26 anni e ho frequentato poco i partiti ma credo nella politica e nella sua missione di cambiamento e di rinnovamento e credo nelle istituzioni democratiche del nostro paese.
gianni esposito, la lettura dell'articolo di Alfredo Rechlin dà una risposta al tuo interrogativo.
"...perché venga avanti una nuova classe dirigente bisogna fare i conti con la cultura politica che ha dominato questi anni e che aveva scambiato quella che era una crisi organica dello «Stato storico» italiano con i guai creati da una cosidetta «partitocrazia»; per cui una volta liquidata questa, il paese sarebbe tornato normale. In realtà ciò che veniva meno era quello straordinario impasto di fattori economici e politici (dal ruolo dello Stato e dell'economia «mista» fino al compito di mediazione politica e sociale svolto dalla Dc e alla straordinaria funzione di progresso e di garanzia degli interessi popolari a cui assolse la sinistra); cioè quei fattori che avevano trasformato l'Italia povera e contadina in una potenza industriale con un tenore di vita tra i più alti del mondo."
Ed segnala ancora con forza:
" È evidente che quel ruolo dei partiti e quel sistema politico non erano più proponibili, ma bisognava sapere quale vuoto si creava. Vivevamo in Italia e non a Westminister, e la Costituzione italiana era un così forte strumento democratico in quanto lo era in modo vivente, e ciò per il fatto che, attraverso le identità collettive, si creavano nuovi diritti di cittadinanza e, al tempo stesso, nuove forme di partecipazione e di rappresentanza.
Che cos'è e quale dovrebbe essere la funzione del costituendo partito democratico ?
"Il mio timore è che sia vano discutere sulla costituente di un nuovo partito se non si affronta questa questione cruciale: che cos'è e a cosa serve un partito in quella che chiamiamo la società degli individui. Tutti vogliono fare i ministri e a nessuno interessa rispondere a una domanda tanto cruciale? È assolutamente vero che il tempo di quello che si è chiamato lo Stato dei partiti è finito e che non si governa più solo in nome di un blocco sociale rappresentato dal partito e dal sindacato. In più governare significa sempre più dettare regole, arbitrare una crescente complessità e varietà di poteri (non solo economici e non solo nazionali) il che comporta l'uso di agenzie e di strumenti di conoscenza che i partiti non hanno. Ma è una sciocchezza dedurne che non servono più i partiti. Non è così perché la grande novità su cui vorrei si discutesse seriamente è che per garantire il «governo lungo» della società più che mai ci vogliono organismi ai quali spetta rendere chiara e mettere in campo una agenda politica più vasta.
La conclusione:
"...la grande novità su cui vorrei si discutesse seriamente è che per garantire il «governo lungo» della società più che mai ci vogliono organismi ai quali spetta rendere chiara e mettere in campo una agenda politica più vasta. Questo è il punto. Il partito come «padrone» della politica di governo recede, ma come fattore guida della comunità assillata da nuovi problemi esistenti e di identità posti da rischi inediti (migrazioni, ambiente, sicurezza, terrorismo, scontri di civiltà e religioni) avanza più di prima sulla scena.
L'ho già detto, non è possibile aggiungere altro.
E' questa una analisi profonda che sarà stata letta di sicuro con consenso dalle forze dell'Unione.
Per chi ama la politica segnalo:
questa sera ore 21.00 su Rai Sat Extra: quattro ottantenni a confronto (Giorgio Napolitano, Miriam Mafai, Mario Pirani, Alfredo Reichlin).
Registrazione precedente l'elezione del Presidente della Republbica.
Poi i vostri commenti.
;-)))
Grandissimo, nonno Alfredo !
ho un po' mendo di fiducia, di pensiero positivo del suo.
Temo infatti (e gli strali di OMB sui vari Majorinoe co. lo dimostrino) che questi abbiano gia' acquistato "grandi quantita' di vinavil".
La TV non si puo' ormai abolire, ma la si puo' fare in modo diverso, molto diverso! Sia in parte tornando alla TV pedagogica (come e' in fondo anocra la BBC e i canali pubblici in europa in genre) sia non restando subalterni alla "macchina hollywood di endemol e grandi fratelli.
Le potenzialita' e le convergenze (ad es. con l'uso di internet ) ci sono ed a costi contenuti.
Occorre solo la testa, e che i pubblicitari rischino un poco all'inizio.
Ormai si e' talmente segmentati, che tanto vale crearsi il pubblico e "farlo crescere" per poi proporre il prodotto.
E' la sfida europea all'america... e se non la vinciamo possiamo chiudere baracca!
booksW
non sapete cosa vi siete perso.
Cosiglio a tutti la lettura di questo splendido libro:
Lettere dalla Kirghisia
Agosti Silvano
ed. L'immagine