«Negro», «comunista» e Belafonte
di Silvia Boschero
Harry Belafonte sta per compiere ottant’anni. Eppure poche settimane fa era in Giamaica, dove ha trascorso l’infanzia, a filmare un documentario sulla sua vita. Quella di una star indomita, da cinquant’anni sulle barricate. L’amico fraterno di Martin Luther King e Bob Kennedy, l’uomo che ha scalato, primo afroamericano, le classifiche di tutto il mondo. Per l’Italia degli anni ‘50 Belafonte era soprattutto quell’uomo bellissimo che cantava Banana boat song (day-O), brano che entrava nel 1957 in classifica svelando l’esotismo del calypso (esce in questi giorni una raccolta splendida: The Essential Harry Belafonte) senza che molti si soffermassero sul significato del pezzo, una «work song» sulla tragica vita degli scaricatori di banane giamaicani. Lui, Belafonte, non si preoccupò più di tanto della mistificazione. Colse il successo e lo utilizzò per spingersi ben oltre, diventando l’antesignano della «world music», l’attivista, una delle voci più autorevoli della diaspora africana. L’Italia osservava compiaciuta il «re del calypso» con quello sguardo voyeurista un po’ provinciale, tanto che quando un anno dopo Carosone lanciò la sua O’ sarracino, confessò di essersi ispirato ad «un uomo bello, un po’ saracino, di quelli che fanno impazzire le donne come Harry Belafonte».
Attore, difensore dei diritti civili, attivista, musicista. Dove ritiene di aver ottenuto il più grande successo?
La musica rappresenta il mio affaccio sul mondo. Il più semplice, quello grazie al quale ho avuto una risposta immediata. Ma non ho mai scisso il mio lavoro artistico da quello fatto in campo umanitario, sociale e politico. Perché credo che la cultura e l’arte abbiano una responsabilità nei confronti dei bisogni della nostra famiglia umana. Quello che ho cercato di fare è trasformare le mie convinzioni in qualcosa che evocasse bellezza, speranza, una possibilità.
Crede che oggi ci siano gruppi, cantanti, che proseguono in questo esempio?
Gli U2 sono gli odierni rappresentanti di una grande tradizione di uso dell’arte. Ma anche Springsteen che ha appena fatto il bellissimo We shall overcome, o le Dixie Chicks che per aver portato avanti il loro punto di vista politico sono state crocifisse qui in America. Tutti loro sanno che è vietato farsi usare. Ma questo accade e deve accadere anche in altri campi. Penso al bravissimo George Clooney.
Come era negli anni Cinquanta essere un nero così famoso?
Dimostrava il potere della musica e dell’arte, la capacità di superare qualsiasi barriera. La mia grande fortuna fu quella di cantare canzoni semplici che piacevano alla gente. Non avevo una grande voce né una grande personalità, ma piaceva quella musica melodica, il senso di umorismo, la mia curiosità. Alla fine della Seconda Guerra Mondiale uscivamo da un periodo di violenza infinita e ci stavamo chiedendo tutti chi fossimo. Chi erano i giapponesi? Chi erano gli africani? Avevamo speso così tanto tempo a dividerci, ed era arrivato il momento di acquistare consapevolezza di noi stessi e degli altri. Le mie canzoni davano un’opportunità di capire il diverso.
Chi la ascoltava agli inizi, i neri o i bianchi?
Entrambi. Fu negli anni Cinquanta che cominciò il movimento dei diritti civili e dunque una grande apertura oltre che una grande tensione. La gente voleva incoraggiamento, anche dalla musica. Io, Pete Seeger e gli altri cominciammo a cantare canzoni che informavano la gente. La musica degli anni Cinquanta, anche molta di quella considerata oggi di facile ascolto, era capace di incoraggiare. Quando Seeger cantò per la prima volta Wimoweh / The Lion Sleeps Tonight o io Day-O iniziammo insieme ad introdurre l’Africa, la gente si incuriosì e smise di avere paura delle diversità.
Ha mai avuto problemi di razzismo?
Oh certo, c’erano molti posti in cui mi era proibito suonare tra gli anni Quaranta e i Cinquanta. Ci sono stati molti giornalisti razzisti che mi hanno descritto come un animale, come un comunista durante il maccartismo, come un problema della storia americana, prima per la mia alleanza con Martin Luther King, poi con Mandela. Mi dissero che stavo attentando alla pura razza bianca. Ma la forza di quello che stavo facendo era più forte e ho prevalso.
Eravate amici lei e ML King tanto che la Cia lo ha indagato. Ricorda il vostro primo incontro?
La prima volta fu nel 1954. Fu lui a chiamarmi e a chiedermi un appuntamento. Io allora stavo ad Atlanta, lui a New York. Lo incontrai nel sotterraneo di una chiesa, la Chiesa Battista Abissina, una chiesa nera di Harlem. Ci sedemmo noi due soli, e parlammo per diverse ore. Della sua missione. Delle sue speranze per l’America. Al termine capii che avevo avuto a che fare con un uomo destinato a grandi cose. Lo incontrai molte volte da allora e gli promisi che lo avrei aiutato, pubblicamente, che gli sarei stato sempre vicino. E così fu fino al giorno del suo assassinio. Ho fatto tutto quello che potevo per aiutare il movimento, per portare idee nuove. Non credo sia mai esistito un periodo della mia vita più pieno di gioia, speranza e onore di quello che ho trascorso assieme al Dottor King.
Non ha ma avuto un momento di disillusione?
Certo. È impossibile vivere oggi negli Stati Uniti e non essere preoccupati per come sta andando questa nazione. Ma per fortuna noto ultimamente una grande mobilitazione. E non solo nel mondo dei diritti civili, ma anche nell’universo degli immigrati, che in questo paese sono milioni e che sono minacciati oggi da una legge ingiusta.
Lei ha detto «Bush è un terrorista»...
Sì, e lo ribadisco. Non può essere definito «terrorismo» solo quello che è accaduto con gli attacchi a New York. Quello che fa il Presidente degli Stati Uniti terrorizzando la nostra gente, ingaggiando giovani della nostra nazione per una guerra illegale, proseguendo questa guerra che distrugge le vite di questi giovani e di migliaia di innocenti in Medio Oriente, ecco, anche questo è un atto di terrore. Così come non posso ammettere la sospensione delle libertà civili imposta al nostro popolo e il cambiamento della nostra Costituzione, che porterà a modificare le nostre vite per i prossimi duecento anni. Questa gente deve essere fermata. Ribadisco anche ciò che ho detto su Condoleeza Rice e Powell: «schiavi da giardino», gente che ha tradito soprattutto i neri d’America. Non mi interessa attaccarli personalmente, ma attaccare un malcostume politico.
Lei è figlio di immigrati caraibici ed è sempre stato interessato alle sorti dell’America Latina. Pensa che l’alleanza tra i paesi dell’America Latina possa costituire un’alternativa politica, sociale, ma anche culturale al modello americano?
Non possiamo pensare di poter essere governati dal modello americano e neppure dall’esempio europeo del passato. Dai giorni della schiavitù, dal colonialismo, dalla segregazione, dall’apartheid dobbiamo capire che non possiamo più vivere basandoci su questi modelli tradizionali. Per questo accolgo con grande entusiasmo le nuove prospettive latino americane, quella di Chavez ad esempio.
C’è stato un momento in cui ha capito che Hollywood non era il posto più adatto a lei?
Il cinema, con la tv, è l’arte più potente che abbiamo. Crea abitudini, stili sociali. E nella mia vita ho visto troppo spesso usare il potere di questi mezzi per l’oppressione sociale. Per mistificare ad esempio chi fossero i neri. L’opera del cinema americano nel distruggere l’emergente senso di nazione afroamericana è stato immondo. Per non parlare di cosa è stato fatto alla comunità indiana con il western. Gli indiani cafoni, selvaggi, e i cowboy eroici che li salvavano portando loro la cristianità. Abbiamo lottato duramente contro Hollywood ma non basta. Milioni di storie vanno ancora raccontate.
Ad esempio?
Penso a film come The constant Gardener, a quello che sta facendo Clooney con Syriana. Io stesso sto per uscire in Usa il 2 novembre con un nuovo film assieme ad Anthony Hopkins ed Emilio Estevez alla regia sulla vita del mio amico Bobby Kennedy. Si intitolerà Bobby, la vicenda del suo assassinio. C’è bisogno che produttori e registi indipendenti si concentrino più su storie politiche, ma anche sociali, su temi che vengono considerati tabù (penso a Brokeback Mountain e Transamerica), o come il bellissimo Tsotsi sul Sudafrica. Queste sono cose importanti per conoscere la nostra cultura, da troppo tempo sottomessa alla cultura eurocentrica.
Harry Belafonte, ossia della mia giovinezza !
popolo del blog: "Carneade, chi era costui ?"