Noi e la Guerra
di Gino Strada
Caro Furio, grazie di avere scritto un altro dei tuoi «commenti» intelligenti e intellettualmente onesti. E grazie anche di aver sottolineato che si sta discutendo tra amici. L'invito in Afghanistan, non ho bisogno di dirtelo, è sempre valido, in ogni momento, anche domani. Io sarò qui sino a fine luglio, mi piacerebbe riceverti all'aeroporto. E veniamo subito, come si dovrebbe sempre fare tra amici, a confrontarci sulle domande che tu poni. «Il ritorno dei talebani - ti chiedi - non è una minaccia sentita e condivisa?».
A volte la parole fanno impressione, specie quando regolarmente associate ad aggettivi come «mostrouso» o «orrendo». Sappiamo, tu me lo insegni, quanti «mostri» sono stati creati ad arte con la manipolazione mediatica, ricordiamo gli ex amici diventati mostri, e gli ex mostri di nuovo amici.
Gli afgani hanno subito il giogo dei talebani. Ma per la maggioranza dei cittadini afgani, che cosa è cambiato cinque anni dopo la loro caduta?
Nell'Afghanistan «libero e democratico» gli afgani hanno votato - magari quattordici volte, come l'infermiere che ha vinto la gara «io voto più di te» tra il nostro staff di Kabul - ma hanno anche visto altre cose succedere, spesso per la prima volta, nella loro città e nel loro Paese. Il «Presidente dell'Afghanistan», risaputo consulente della petrolifera Unocal nonché del Pentagono stesso, ha una «guardia presidenziale» composta da cittadini Usa che lavorano per la DynaCorp, uno dei tanti subcontractors, ditte private che si occupano di «sicurezza» e che pullulano di ex militari e spie ancora in attività. Sempre a Kabul, in cinque anni (dall'inizio della «guerra al terrorismo»), gli affitti delle case sono aumentati di oltre dieci volte, la città è tra le più inquinate al mondo, ogni giorno si ammazzano tre bambini, fatti a pezzi dai convogli del nuovo business e da quelli militari (in divisa o no) che hanno la regola di sicurezza (la propria!) di non fermarsi in caso si investa qualcuno. Nella capitale sono aumentate enormemente la violenza e la delinquenza comune. È arrivata la prostituzione. Circolano molte droghe pesanti. Si inizia a parlare di Hiv e di rischio Aids. È arrivata anche la medicina a pagamento. Grazie alla World Bank, a Kabul già la settimana dopo la caduta dei Talebani. Medicina privata. In un Paese di 25 milioni di abitanti che portano a casa mediamente 10 dollari statunitensi al mese, in un Paese che in oltre trent'anni di guerra ha visto 4 milioni di rifugiati, 2 milioni di morti, oltre 1 milione di disabili, si sta costruendo - con i «soldi degli aiuti» - la medicina a pagamento: chi ha soldi può curarsi (male), gli altri crepino pure.
Anche questo hanno visto e stanno pagando i semplici cittadini afgani, bambini donne e uomini. Effetti collaterali della democrazia? Forse, ma solo un demente potrebbe accettarli.
Migliaia di civili ogni anno (molti di più che ai tempi della guerra tra taleban e mujaheddin) sono stati dilaniati dalle esplosioni. Per non parlare dei diecimila civili morti nei primi sei mesi della «liberazione», polverizzati dalle bombe della libertà.
Non ti stupisca allora, caro Furio, se la maggioranza degli afgani non vede il ritorno dei Talebani al potere come una «minaccia»: per molti sarebbe «meglio», per altri è «una speranza», alcuni perfino pregano perché succeda. Molti non hanno simpatia alcuna per i Talebani, ma giudicano ancora peggio il fatto che il loro Paese sia militarmente occupato da stranieri. E l'avversione e l'insofferenza stanno crescendo, fino alla rivolta. I «disordini» del 29 maggio - una dozzina di morti e più di cento feriti civili, da colpi d'arma da fuoco, settantuno dei quali sono arrivati al Centro chirurgico per vittime di guerra di Emergency - non erano manifestazioni «talebane», non c'era alcun agitatore o «terrorista» a sobillare la folla. Non ce n'era bisogno. È bastato loro aver vissuto cinque anni di «liberazione». Mi piacerebbe discutere con te di queste costanti spirali che portano, ogni volta che si sceglie la «guerra come strumento», al risultato paradossale di far apparire «desiderabili» perfino quei regimi di terrore che il terrore della guerra si proponeva di soppiantare.
Abbiamo paura di dire la verità, di ammettere che moltissimi iracheni cambierebbero volentieri la loro vita di oggi con quella nell'Iraq dominato dal «mostro dittatore» (che allora però era ancora «l'amico Presidente»)?
Dobbiamo trovare il coraggio di dire che anche qui sono in molti a rimpiangere i taleb, quando vedono - ed è questo il senso profondo di quei «disordini» - i ferenji (gli stranieri) decidere il futuro degli afgani.Ci stupisce? Ci stupisce l'insofferenza di una popolazione che ha visto guerra per decenni, e che vede ora altri eserciti combattere una nuova guerra chiamandola pace?
Stupiti o meno che ne restiamo, loro - la maggioranza degli afgani - la pensa così. I militari stranieri, anche i militari italiani, come abbiamo sperimentato, sono considerati forze di occupazione, e sono un bersaglio.
Qui in Afghanistan c'è la guerra, e minaccia di intensificarsi nei mesi a venire. L'Italia, che ruolo vuole avere? Da che parte dovrebbe stare?
«Provengo da un paese - ha detto recentemente a Montecitorio la deputata afgana Malalai Joya - che ancora brucia tra due fuochi: da una parte ci sono i criminali fondamentalisti dell'Alleanza del Nord sostenuti dal governo americano, dall'altra i talebani e i terroristi di Al-Qaida».E noi, a chi decidiamo di «affittare» i nostri fucili, ai «criminali fondamentalisti» contro i «talebani terroristi»? Sarebbe questo l'obiettivo e il senso della nostra presenza?
Anziché cercare un proprio «ruolo nella guerra», anziché rincorrere formule per non scontentare alleati-padroni, l'Italia potrebbe fare altro. Il nostro Paese ha la cultura e le risorse umane per un gesto di pace, per stare dalla parte dei disgraziati, poveri, martoriati cittadini dell'Afghanistan, di quelle persone il cui destino ci interessa e ci angoscia.
E se provassimo a sperimentare approcci diversi «nell'aiutare l'Afghanistan»? Si potrebbero trovare, magari a fatica, soluzioni che non prevedano l'uso di militari, iniziative basate su una discussione e un confronto (che richiede i suoi tempi) con tutte le componenti della società afgana, progetti condivisi come priorità dai cittadini afgani, non solo voluti e caldeggiati dai tagliagole di turno.
Perché non togliere i militari e con calma ricostruire l'immagine che ci piace gli altri abbiano dell'Italia? O qualcuno pensa che il più bel «made in Italy» siano i fucili mitragliatori?
Mantenere la truppe in Iraq e in Afghanistan sta costando oltre 100 milioni di euro ogni mese al Paese dove si ritengono impossibili aumenti retributivi di 100 euro.
Emergency, una piccola ma importante realtà qui in Afghanistan, dal 1999 ha fornito assistenza a un milione e centomila pazienti e spende ogni anno circa 6 milioni di euro per offrire assistenza gratuita nei suoi tre ospedali chirurgici (Panchir, Kabul, Lashkargah), nel Centro di Maternità (Anabah), nelle 27 cliniche e posti di pronto soccorso, nelle carceri.
Con i soldi già spesi per mantenere qui le truppe, avremmo potuto dare ai cittadini dell'Afghanistan (non al despota di turno) 300 ospedali, 5.000 scuole e 3.000 Centri di servizi sociali per i disabili, per le vedove e le donne emarginate, per gli anziani, per i tanti orfani di guerra. Non parlo solo di costruire edifici, ma di attivare strutture, di fornire servizi qualificati addestrando lo staff nazionale afgano.
Senza blindati né elicotteri da combattimento, sarebbero bastate la passione e la competenza di molti italiani, ingegneri e architetti, infermieri e medici, tecnici e amministratori.
I convogli disarmati di Emergency possono ancora oggi spostarsi dal Panchir a Lashkargah (attraversando regioni interamente sotto il controllo dei talebani) senza alcuna scorta, senza temere attacchi. Può fare lo stesso il personale militare italiano «in missione di pace»?
Mi attribuisci «la speranza un po' folle» di voler «unire due percorsi»: ospedali da un lato, e una «responsabile decisione politica che non sia di abbandono» dall'altro. Può darsi, ma non credo si tratti di follia. C'è dell'utopia, certo. C'è l'ostinata utopia di credere che dobbiamo porre in fretta nell'agenda della specie umana - e fare in modo che entri anche nella agenda dei Governi - la costruzione di una società dalla quale sia bandito l'uso della violenza di massa, del terrorismo come della guerra.
Ci si arriverà se incominciamo ad agire in questa direzione, una volta dopo l'altra, ogni volta. Iniziando, ad esempio, col ritirare tutti i militari italiani (che tristezza invocare «ombrelli» e «accordi» per giustificare la partecipazione ad una guerra!) e impegnarci da subito per disegnare una «via italiana pacifica» per gli aiuti ai Paesi in maggiore difficoltà.
E a fine mese che succede, col voto sul rifinanziamento della missione militare? Continuo a sperare in un segnale di cultura, di civiltà, di «ripudio della guerra».
Se invece, per qualsiasi ragione «della politica», il Governo italiano deciderà di trovare comunque un ruolo per le nostre truppe, per non irritare presunti alleati o autentici padroni, il nostro Paese avrà perso una occasione importante per affermare una cultura nuova.
Si temono terremoti politici, qualcuno crede che la «stabilità» politica italiana debba essere la priorità nell'orientare le nostre scelte sull'Afghanistan.
Che cosa vorrebbero dall'Italia e dagli italiani i cittadini dell'Afghanistan? Che li aiutassimo a campare, e se possibile a campare un po' meglio, oppure ci stanno chiedendo di stabilizzare il regime di Karzaj? E noi, vogliamo un'Italia «stabile» o un Paese che rifiutando la guerra potrebbe incominciare - finalmente - a chiamarsi davvero «civile»?
grazie gino.
la differenza abissale e insanabile è sempre quella fra chi ragiona e opera con il cuore e chi invece ragiona e opera con il c... La leva di comando però ce l'hanno i secondi che ritirano le truppe dall'Irak e le mandano in Afganistan.
Tremendo articolo di Gino Strada.
Sarò curioso di leggere la risposta di Furio Colombo, che questa volta mi dà l'impressione di avere toppato.
"Tremendo articolo di Gino Strada."
Minchia,sono d'accordo!
Non conosco in dettaglio le realtà di cui parla Strada, tranne quella che riguarda la composizione delle spese delle nostre missioni di pace: pare che il 90% sia destinato alla gestione delle forze armate stesse. Che senso ha?
Beh, è normale, gli stipendi sono la voce di costo più alta in assoluto.
Poi leggi che la polizia non ha i soldi per la benzina delle auto e tutto quadra...:)
io quella realtà la conosco o almeno penso di poterla intuire avendo vissuto 2 anni in tajikistan...tutto è precario, luce, acqua, riscaldamento, cibo, ...tutto è lasciato al caso (morire in un incidente stradale, o come ho visto io perchè al mezzo di trasporto pubblico - un pulmino 9 posti con 30 persone dentro- gli esplodonole bombole del carburante posizionate sul tetto dopo un ennesima foratura)
le persone vivono come degli animali..senza dignità.
è una vergogna per tutta l umanità che nel 21- esimo secolo persone debbano ancora vivere in queste condizioni...
ancora piu vergogna vedendo dove e come abbiamo speso i nostri soldi...
In effetti è difficile non essere toccati dalle persuasive parole di Gino Strada, ma alle volte mi domando il perché per essere delle persone che vogliono fare SINCERAMENTE del bene bisogni andare in prima linea laddove c'è ancora una terribile guerra in corso (checché se ne dica). So già che verrò vista come una cinica egoista, ma perché andare a "fare del bene" in posti dove si rischia ogni minuto di essere ammazzati? Davvero i civili, le donne e i bambini, muoiono solo sotto le bombe? Forse che non muoiano anche in paesi che non sono alla moda come l'Iraq o l'Afgenistan, né per la destra, né tantomento per la sinistra, dove la gente non si tira le bombe? Se davvero voglio aiutare il prossimo, allora, se mi faccio uccidere, non sarò solo io a rimetterci, ma anche tutta quella gente a cui avrò negato il mio aiuto. Se davvero voglio fare del bene, allora devo saper essere (anche se non è facile) razionale, forse utilitarista, ma non utopista. Siamo arrivati ad un punto tale dove, per migliorare concretamente la situazione, il rigore deve essere totale. Non voglio certo negare il fascino del santo laico ed eroe (e non mi riferisco solo a Strada, ma anche a molti altri che fanno ciò che fa lui, anche se con molta meno pubblicità) che si schiera in favore degli oppressi a rischio della propria vita, però non credo che in questo modo si riesca ad andare davvero a fare qualcosa di concreto e duraturo.
Le mie non vogliono essere né accuse, né leggi, ma solo delle domande di una ragazza che non riesce a capire se davvero si possa migliorare il mondo.
isi...
il problema non è dove far del bene, ma l'importante è farlo ,anche accanto a casa tua, ci sono mille modi x far del bene al prossimo, e mille necessita pure in italia.
se comunque per sbaglio ti capitasse di vedere cos asucede in paesi del 3 mondo (anche dove non c è necessariamente una guerra) il cuore ti si aprirebbe a tal punto che rientrato in italia tutti i giorni inizi a pensare a quale è lo scopo della tua vita...
No, non basta fare, non è sufficiente, bisogna fare al meglio. Ergo il DOVE è un fattore piuttosto importante, a mio parere.
Io mi sono presa la responsabilità personale e morale di dedicare la mia vita a questa causa (non sto parlando in modo sprovveduto, ma è il frutto di anni di ragionamenti). è per questo che, seppur sarebbe affascinante e si verrebbe visti come dei santi, non posso permettermi di andare a rischiare la vita (per quanto possibile... alla fine il destino è burlone) perché non poteri più fare niente. Non ci smenerei solo io che perdo la vita, ma anche tutti quelli che avrei potuto aiutare in modo diretto o indiretto (forse anche io sono utopista, ma credo che ogni volta che qualcuno riceve del bene, fosse anche una spinta alla macchina che non parte, a sua volta sarà più proprnso a fare del bene). In più trovo che bisogna cercare di distogliere gli ochci dal singolo, e di vedere più lontano. E bisogna imparare a non compiacerci troppo di noi stessi.
Un film che consiglio a tutti è "Cuore sacro", a me ha fatto molto riflettere.