Angelucci, la dinasty delle cliniche tra politica e giornali
di Roberto Rossi
Lo chiamano il re delle cliniche private, anche se la sua Tosinvest Sanità, per giro d’affari, è la numero due in Italia dietro al gruppo Rotelli. Ha anche il vizio dell’editoria che coltiva di pari passo a quello delle amicizie politiche. Con un carattere distintivo in entrambi i casi: la trasversalità. E Giampaolo Angelucci, 34 anni, romano, diplomato in scienze umanistiche alla Augustinian Academy di New York, da ieri agli arresti domiciliari nell’ambito dell’inchiesta pugliese che ha coinvolto anche l’ex governatore Raffaele Fitto, della trasversalità ne ha fatto una bandiera.
Il suo impero, diviso con altri due fratelli, nasce circa venti anni fa quando il padre Tonino fonda la società Tosinvest che lancia nel business della sanità privata. In due decenni la Tosinvest diviene un gruppo con una capacità ricettiva di quasi 4mila posti letto, oltre mille medici specialistici, circa tremila dipendenti, una trentina di strutture sanitarie dislocate in tutta Italia (con una particolare propensione per Lazio, Abruzzo e Puglia) e con un fatturato che s’aggira attorno al miliardo di euro. La più famosa di queste cliniche è il San Raffaele di Roma. Fu acquistato da Angelucci nel 1999 dalla Fondazione Monte Tabor di Don Verzè. L’imprenditore riuscì a soffiarla al ministero della Sanità guidato da Rosy Bindi spendendo circa 270 miliardi delle vecchie lire. Qualche tempo dopo fu rivenduto allo Stato per circa 320 miliardi. Una plusvalenza secca di 50 miliardi di lire e qualche polemica politica poi rientrata.
In effetti la politica non è mai stata un problema per Angelucci, uno che pure vive d’appalti. Nel Lazio, per esempio, sono cambiate tre giunte nel giro di dieci anni senza che il gruppo ne risentisse. In Puglia lo stesso. Con il precedente governatore, Raffaele Fitto, è stata vinta una gara per una parternership con la regione nel campo della riabilitazione che la giunta di sinistra presieduta da Niki Vendola ha poi perfezionato.
Forse perché Angelucci, anche grande amico della giornalista Rai Anna La Rosa, nel mare magnum della politica non ha mai navigato a vista. Le sue amicizie, vere o presunte, spaziano da Massimo D’Alema a Gianfranco Fini (il fratello Massimo era consigliere nella Tosinvest), da Forza Italia ai Ds. Nel 2003, per esempio, Angelucci per 42,6 milioni di euro acquistò a saldo e stralcio il 50,1% di Beta immobiliare. Beta immobiliare era la società creata proprio dai Ds per convogliare i debiti accumulati dal Partito Democratico di Sinistra (al 30 settembre 2003) con le banche (Carisbo, Banca Intesa, Capitalia, Mps) e garantiti dall’ipoteca su 261 immobili. L’acquisto di Angelucci del debito di Beta immobiliare (scontato del 50%) permise ai Ds di estinguere il loro con gli istituti di credito.
E la stessa trasversalità Angelucci, che poco tempo fa si è lanciato anche nella finanza acquisendo il 2% di Capitalia, l’ha avuta anche con l’editoria, «la mia grande passione», come ebbe a rivelare qualche tempo fa al periodico Prima Comunicazione. Una passione nata proprio con il quotidiano L’Unità. Nel 1999, prima dell’acquisto del San Raffaele, grazie all’interessamento di Alfio Marchini, Angelucci comprò una fetta della società L’Unità editrice multimediale spa poi finita in liquidazione. Una schema ripetuto, con il centrodestra al governo e con maggiore fortuna, quando Angelucci acquistò la proprietà della testata di Libero quotidiano fondato da Vittorio Feltri.
Oggi, dopo aver tentato di acquisire il Corriere dell’Umbria, sta valutando la possibilità di salire nella compagine azionaria de Il Riformista di cui ha una quota nella società di minoranza Nova Editior che con Reti spa controlla il giornale guidato da Paolo Franchi.
Beh, i due quotidiani solidarizzano.
che bello capire che ho sbagliato tutto
La valutazione della perizia [per il San Raffaele di Roma, fatto da don Verzè] è 201 miliardi. Alla notizia don Luigi sobbalza sulla poltrona: ne ha spesi 350. Anche secondo i suoi esperti - l'inglese Ricbard Ellis e la società American Appraisal, i migliori del mondo - il San Raffaele di Roma vale molto di più, 340 miliardi per gli inglesi, 330 per gli americani. Ma la risposta della Bindi è lapidaria: o 201 miliardi o niente. E le pressioni delle banche si fanno via via più iugulatorie.
Don Luigi è costretto a firmare un preaccordo per quella cifra, poiché l'unica alternativa sarebbe lasciar languire l'ospedale e licenziare 150 persone. Fra il preliminare e il contratto trascorrono due settimane, il tempo di convocare il consiglio d'amministrazione del San Raffaele. Mentre si attende l'ultimo atto, il telefono di don Luigi squilla e dall'altro capo del filo c'è Antonio Angelucci, un nome importante della sanità romana. La sua proposta è schietta: “Don Verzè, abbiamo saputo che la sua struttura di Roma è in vendita. Siamo interessati e vorremmo farle un'offerta: 270 miliardi compresi case e terreni sull'Appia Antica, Le vanno bene?”.
Anche se a prima vista sembra un intervento a orologeria, per un religioso dovrebbe chiamarsi Divina Provvidenza. Il consiglio d'amministrazione decide di non rinunciare a 69 miliardi in più (nessuno l'avrebbe fatto) e vota il sì agli Angelucci. Un ospedale, più 130 ettari di terreno a verde all'interno del raccordo anulare, più una villa sull'Appia Antica con 15.000 metri quadrati di parco: purtroppo la valutazione è sempre bassa rispetto al suo valore. E non è finita: il ministero, in possesso di una lettera di intenti, firmata non da don Verzè ma da un consigliere, denuncia il San Raffaele per comportamento contrattuale scorretto e minaccia una causa civile chiedendo il sequestro giudiziale dell'ospedale.
Di fronte all'ipotesi di cinque o sei anni d'attesa prima di una sentenza in Tribunale, il Consiglio della Fondazione accetta un accordo extragiudiziale: paga un indennizzo di sette miliardi al ministero e vende agli Angelucci.
Ricorda don Luigi: “Hanno comprato sapendo di poter rivendere”. Dopo sei mesi gli Angelucci rivendono il San Raffaele per 320 miliardi allo stesso ministero della Sanità che lo aveva valutato 201, con una plusvalenza secca di 50. Quarantotto ore prima delle elezioni regionali, Rosy Bindi, Piero Badaloni e Lionello Cosentino (assessore regionale alla Sanità diessino) annunciano alla stampa: “Finalmente si apre al pubblico una struttura sanitaria che era bloccata da tempo”.
Vero, ma bloccata da loro. C'è di più. Stiamo parlando di una struttura che, se non fosse stata palesemente osteggiata, avrebbe funzionato gratis, senza costringere lo Stato a sborsare 320 miliardi. Rimane in piedi una domanda: come mai per il ministero un ospedale vale 20 miliardi se a venderlo è don Verzè e ne vale 320 (sei mesi dopo) quando a venderlo è la famiglia Angelucci?
In fondo comprensibili visto che la famiglia si accollerà poi parte dei debiti dei DS:
"Nell'ottobre 2003 il segretario dei Ds, Piero Fassino, chiede alle banche creditrici il 50 per cento di sconto per saldare un cumulo di debiti pari a 88 milioni di euro. La proposta di transazione proviene dall'avvocato bolognese Luigi Serafini, liquidatore della Beta, la società che gestiva il patrimonio immobiliare dell'allora Pds.
Le banche accettano, a dicembre il piano di salvataggio prende il via e l'onere se lo assume Giampaolo Angelucci, proprietario di clini che ed editore, che acquista il 50,1 per cento dei debiti diessini. Circa 10 mila euro di sostegno arrivano ai Ds anche dalla Hopa di Chicco Gnutti, con il paradosso - scriveva Milano Finanza - che un po' di quei soldi "erano anche del premier Silvio Berlusconi, socio della finanziaria bresciana"
Tutto molto semplice, lineare e .. trasversale