«Io israeliano mi oppongo all’uccisione di bimbi palestinesi»
di Umberto De Giovannangeli
«Mi rifiuto di considerare dei bambini uccisi nel corso di una operazione militare come “effetti collaterali” nella lotta al terrorismo. Se noi israeliani pensassimo questo vorrebbe dire che i terroristi avrebbero cominciato a vincere, perchè sarebbero riusciti a degradare i nostri cuori, rendendoli di pietra, a violentare le nostre coscienze, trascinandoci a loro livello. So bene che la lotta contro terroristi che spesso operano in aree affollate, non è facile. Ma ciò che con la nostra lettera aperta abbiamo inteso dire è che non tutti i mezzi sono legittimi per difendere Israele dai tiri di razzi e dai sanguinosi attacchi suicidi». Meir Shalev, tra i più affermati scrittori israeliani contemporanei, è uno dei 18 intellettuali israeliani che nei giorni scorsi hanno sottoscritto una lettera aperta indirizzata al ministro della Difesa, e leader laburista, Amir Peretz, nella quale denunciano gli attacchi ai civili palestinesi nelle operazioni condotte dall’esercito israeliano. «La lotta al terrorismo - sottolinea Shalev - non può giustificare sempre tutto e tutti. La superiorità di una democrazia sta nel riconoscere i propri errori. E Israele deve mostrarsi anche in questo frangente una grande democrazia».
Cosa c’è alla base della lettera aperta di cui Lei è uno dei promotori?
«Questa lettera per quanto scritta di getto non nasce solo sull’onda dell’emotività e del dolore per ciò che stava avvenendo nella Striscia di Gaza, con i civili uccisi, e tra questi diversi bambini, in operazioni antiterrorismo lanciate dal nostro esercito. Al dolore si è aggiunta la preoccupazione per il rischio di una deriva inaccettabile dell’esercizio del diritto alla difesa. Con questa lettera aperta abbiamo voluto affermare che non tutti i mezzi sono legittimi per difendere Israele dai razzi e dai kamikaze, e che la vita e i diritti di civili disarmati devono essere rispettati. È immorale e politicamente controproducente - abbiamo scritto nella lettera - fare pressione sulla popolazione palestinese e farle subire punizioni collettive come mezzo per combattere il terrorismo».
Ma non sono terroristi anche coloro che sparano razzi contro Sderot?
«Riconoscerli come tali non può in alcun modo mettere tra parentesi il rispetto della vita dei civili palestinesi. Israele è in guerra contro i terroristi ma non ha dichiarato guerra ad un popolo intero. Mi rifiuto di considerare i bambini uccisi a Gaza come dolorosi “effetti collaterali” nella giusta lotta contro i terroristi. Non accetto la logica, perversa, secondo cui il fine (la lotta al terrorismo) giustifica i mezzi, tutti i mezzi per sconfiggere il Nemico».
Nelle scorse settimane, in un altro appello, di cui Lei è stato tra i promotori, rivolto al premier Olmert si chiedeva al Governo di prendere misure a protezione di bambini palestinesi attaccati a colpi di pietre da coloni oltranzisti mentre si recavano a scuola.
«Quell’appello non aveva nulla di politico. Era un obbligo morale, e come tale non era né di destra né di sinistra. Quell’appello nasceva dalla rivolta delle coscienze, almeno di quelle dei suoi firmatari, di fronte al fatto che bambini che volevano andare a scuola erano attaccati brutalmente in quanto palestinesi. Quei bambini non rappresentavano una minaccia, a meno che non si consideri che un palestinese sia in sé una minaccia da estirpare. Ma questa equazione è la morte della ragione, oltre che una abiezione morale».
Molto si discute sulla pace possibile e sulle rinunce che Israele sarebbe disposto a fare per raggiungere una pace nella sicurezza.
«Rinunciare ai territori occupati con la Guerra dei Sei Giorni non è una gentile concessione che Israele fa ai palestinesi, peggio ancora una resa ai terroristi, e neppure è il sacrificio da fare sull’altare di un astratto concetto di giustizia. Restituire quei territori occupati dal 1967 è il prezzo necessario da pagare per salvaguardare il bene più prezioso, uno dei pilastri, assieme all’identità ebraica, su cui si fonda lo Stato d’Israele: la sua essenza democratica».
Si tratta «solo» di un problema territoriale?
«No, si tratta anche di riconoscere vicendevolmente, noi israeliani e i palestinesi, che l’essenza tragica di questo conflitto è che a scontrarsi non è il Bene contro il Male, ma due diritti egualmente fondati, due aspirazioni altrettanto legittime coltivate dai due popoli: la sicurezza per Israele, uno Stato per i palestinesi. La pace non può che nascere dal riconoscimento dei due diritti, e da quel desiderio di normalità che possa trionfare sul sogno nefasto del Grande Israele o della Grande Palestina».
Pienamente d'accordo. Impossibile nn esserlo.