Giudici in trincea
di Nicola Tranfaglia
Qualcuno dieci anni fa sperava che l’Italia stesse diventando un Paese normale. Abbiamo dovuto tutti verificare nell’ultimo decennio il protrarsi oltre ogni limite di una transizione infinita che ha riservato nuove drammatiche sorprese al nostro Paese.
Le istituzioni non si sono rinnovate e, anzi, in questi ultimi cinque anni, hanno registrato un regresso e un’espansione di illegalità che ha reso normale quello che per molto tempo non lo era ed è eccezionale quello che in altri tempi avveniva ogni giorno.
L’inchiesta di Potenza, su Vittorio Emanuele di Savoia e altri personaggi di qualche notorietà come il portavoce dell’onorevole Gianfranco Fini, ha rivelato un ampio giro di gioco d’azzardo clandestino, di prostituzione più o meno mascherata, di truffe compiute a danno dei soliti sprovveduti, e si svolge in una atmosfera di notevole anormalità.
Una situazione che vede i politici attaccare i giudici, i media a comportarsi in maniera discutibile continuando a sostenere le tesi delle forze politiche ed economiche a cui si sentono legati.
Così può succedere, come ieri sera è successo, che un giudice delle indagini preliminari come il dottor Iannuzzi di Potenza senta una pressione fortissima da parte dei politici come dei media, perché l’inchiesta ha toccato personaggi potenti e si mobilita un politico che fino a ieri era vicepresidente del Consiglio e ministro degli Esteri, il quale va nella trasmissione di Bruno Vespa a invocare leggi restrittive nei confronti dei giudici e dei giornalisti, perché tra le intercettazioni pubblicate dai giornali si parla anche di affari condotti da sua moglie con alcune cliniche e di proposte indecenti fatte dal suo portavoce che usa la Rai come una proprietà personale del partito.
Nasce così una polemica assai dura tra l’Associazione magistrati e lo stesso giudice Iannuzzi accusato dall’associazione di parlare troppo, ma il magistrato ribatte denunciando la pressione esercitata sui giudici.
Verrebbe da dire che hanno un po’ di ragione e un po’ di torto gli uni e gli altri, perché nella normalità un giudice parla soltanto attraverso le sue sentenze, ma la normalità richiede anche che i politici non entrino nelle inchieste giudiziarie a gamba levata in trasmissioni televisive, non dicano - come ha fatto l’onorevole Fini - che il pubblico ministero Woodcock avrebbe dovuto essere sospeso da tempo dal Consiglio Superiore della Magistratura proprio nel momento in cui il magistrato è assolto per non aver commesso i fatti.
Siamo insomma in piena anormalità.
E la politica, se non vuole rinunciare al suo ruolo centrale nella società, deve essere quella che fa per prima i passi decisivi per uscire dalla anormalità, garantire l’autonomia e l’indipendenza della magistratura sia da se stessa sia dai media, fare in modo che i processi si svolgano nella massima serenità possibile.
Non c’è altro modo per uscire da questa situazione.
E preoccupa oltre ogni modo il fatto che sia difficile, per non dire impossibile, distinguere nella confusione quotidiana ruoli e responsabilità in vicende che mostrano comunque il degrado di una società ricca ma in crisi, statica nelle sue gerarchie e nei suoi riti, scontata come un pessimo film di serie B.