Guantanamo: c’è un giudice in America
di Siegmund Ginzberg
C’è una Costituzione che non si cambia a capriccio in America, e ci sono giudici che intendono farla rispettare, si potrebbe dire, parafrasando quel che disse il mugnaio a re Federico di Prussia che voleva espropriargli il mulino. È la seconda volta in due anni che la Corte suprema si pronuncia su Guantanamo, per dire a Bush che non è autorizzato a farsi le regole da solo, anche di fronte ad un pericolo eccezionale come il terrorismo, anche di fronte alle «necessità militari».
La decisione, presa con 5 voti contro 3 dissenzienti, stabilisce che i detenuti a Guantanamo non possono essere giudicati da corti marziali inventate ad hoc, come avrebbero voluto la Casa Bianca e il Pentagono, e che il conflitto con Al Qaeda, per quanto eccezionale, è regolato dall'articolo 3 della Convenzione di Ginevra, che prevede «tribunali regolari, che consentano tutte le garanzie giudiziarie riconosciute come indispensabili dai popoli civilizzati». Due anni fa, la Corte aveva deliberato che i «combattenti nemici» detenuti a Guantanamo avevano il diritto di contestare la loro detenzione. La nuova decisione riguarda il ricorso presentato alla Corte dal yemenita Salim Ahmed Ramadan, sospetto di essere stato guardia del corpo e autista di Osama bin Laden, e altri nove detenuti in procinto di essere processati da un tribunale speciale. A presiedere i giudici era l'86enne giudice John Paul Stevens, significativamente l'unico sopravvissuto della generazione che aveva combattuto la Seconda guerra mondiale, l'ultima «buona guerra» per definizione. Il giudice capo John G. Roberts, recentemente nominato da Bush, aveva dovuto ricusare perché si era già pronunciato in materia (a favore delle tesi della Casa Bianca) in un giudizio precedente. L'opinione dominante tra i commentatori è che, con questa sentenza, la Corte suprema, nella scelta tra Bush e la Costituzione Usa, tra le esigenze di una «guerra al terrorismo» senza regole e la Costituzione Usa, abbia scelto ostentatamente la Costituzione. In sostanza, si è rifiutata di concedere al «comandante supremo» la «cambiale in bianco» che questi pretendeva.
Si è notato che la decisione della Corte suprema non mette direttamente in discussione la legittimità di Guantanamo, tanto meno impone la chiusura del famigerato campo di detenzione e di tortura appeso giuridicamente e territorialmente (si trova in una base navale Usa a Cuba) al di fuori di ogni regola. Non libera nessuno dei circa 450 prigionieri che continuano ad esservi rinchiusi senza processo, e, ancora, senza nemmeno accuse e incriminazioni precise. Si limita a sostenere che quelli per cui ci sono accuse (una decina appena) non possono essere tradotti di fronte a corti ad hoc (che non sono nemmeno corti marziali, che darebbero almeno un minimo di normali garanzie). Non commenta e non cambia le condizioni in cui vengono detenuti e interrogati. Non modifica in sé nulla, anzi accentua lo stato di incertezza sul dove e come si andrà a parare da ora in poi. Il comandante americano del campo, il contrammiraglio Harry B. Harris si è affrettato a dichiarare che «dal suo punto di vista», «l'impatto diretto (della sentenza) sarà negligibile». Quando un paio di settimane fa tre detenuti si erano suicidati aveva definito il loro gesto «un atto di guerra asimmetrica contro gli Stati Uniti». Dal dipartimento di Stato un vice-segretario aveva fatto eco condannandolo come «gesto di pubbliche relazioni per attirare l'attenzione» da parte di terroristi incalliti. È anche possibile che il peggio sia alle spalle, che le condizioni di detenzione siano - di fronte allo sdegno che hanno suscitato -meno disumane, che gli interrogatori avvengano ormai, come rassicurano (forse non rendendosi conto appieno dell'orrore che l'accostamento dei termini suscita) sotto «stretta supervisione medica». Abbiamo letto che gli avevano persino dato il permesso di assistere in differita alle partite dell'Arabia saudita nel mondiale di calcio (è stata eliminata subito). Ma evidentemente non cambia la sostanza.
Non è neppure detto che questa sentenza della Corte suprema faciliti una «exit strategy» da Guantanamo, incerta e in forse quanto la «exit strategy» dall'Iraq. «Vergogna nazionale» l'una (la definizione è dello storico e consigliere di John Kennedy, Arthur Schlesinger). Angoscia cronica nazionale ormai l'altra. Guantanamo e Iraq hanno in comune probabilmente l'assoluta inutilità di qualcosa (e Guantanamo forse più ancora dell'Iraq) che ha sortito un effetto assolutamente opposto a quello che si desiderava, ha fatto agli Stati Uniti, alla loro immagine e al loro prestigio nel mondo, molto più danno di quanto abbiano fatto gli attentati terroristici, ha insomma danneggiato la «guerra al terrorismo», molto più di quanto possa essere riuscito a contenere il terrorismo. George W. Bush a questo punto vuole sinceramente «uscire» da Guantanamo almeno quanto vorrebbe «uscire» dal pantano iracheno. Continua a ripeterlo. L'ha detto di nuovo qualche giorno fa in Europa, ai suoi interlocutori che lo esortavano a smantellare Guantanamo come, molti anni fa, Ronald Reagan esortava Gorbaciov ad abbattere il Muro di Berlino. Gli ha risposto che attendeva una decisione della Corte suprema. Questa è venuta. Ma non è detto gli basti per prendere l'unica decisione giusta, anzi indispensabile.
Il problema, per Bush, non è solo Guantanamo. È che questa decisione della Corte suprema mette in discussione l'insieme delle prerogative che si era arrogato in questi anni come «difensore supremo» della sicurezza degli Stati Uniti. Le implicazioni si estendono a molti altri temi, i programmi di sorveglianza elettronica, la privacy violata degli americani, le altre leggi eccezionali. L'altolà è che anche un «presidente in guerra» non può agire come se fosse al di sopra del Congresso e della Costituzione. Non è una ribellione contro una «fascistizzazione» dell'America che non c'è. È, se si vuole, come è successo altre volte nella storia di questo grande Paese, una sorta di forte avvertimento «preventivo», perché non passi a qualcuno l'idea nemmeno per l'anticamera del cervello.
George W. Bush farà, come dire, 'orecchio da mercante' !
Più probabilmente è del tutto sordo !
Muone, condivido questo tuo post, ma credo che te lo ritroverai ben presto nella raccolta differenziata.