«L’Ulivo non sarà la casa dei moderati»
Forum con Walter Veltroni: «Il Partito democratico può essere maggioritario
ma non sia una fusione fredda tra Ds e Margherita. La politica parli ai giovani»
«Io non penso che il partito democratico sia la casa dei moderati del centrosinistra, né che sia la fusione fredda tra Ds e Margherita». Walter Veltroni parla, in un forum a l’Unità, dell’Ulivo, del governo, della politica. Spiega che tanti dei problemi della nuova maggioranza hanno origine nella legge elettorale «che è passata con eccessiva facilità e che ha reintrodotto una dinamica identitaria partitica». Indica l’obiettivo di una riforma - nella direzione della legge per l’elezione dei sindaci - nella seconda parte della legislatura. «Il ricambio generazionale - aggiunge - ci sarà quando si avrà la sensazione che chi viene chiamato ad esercitare responsabilità di governo può realizzare gli obiettivi». Sulla collocazione internazionale del nuovo soggetto, il sindaco di Roma ricorda che la grande casa del riformismo europeo è il Pse, e aggiunge che i suoi confini si devono allargare. I valori del nuovo partito? «Tenere insieme crescita economica e equità sociale, libertà e diritti collettivi».
Leggerezza. Walter Veltroni ama questa parola non come il contrario di serietà. La leggerezza della politica che invoca è quella di Calvino e delle sue «Lezioni americane», ovvero di una politica che parla alla mente e guarda alla vita e alle aspirazioni delle persone. Specialmente dei giovani. Ecco il suo Forum all’Unità
I lettori leggeranno questa intervista mentre si preparano a vedere la finale della Coppa del Mondo. In questi giorni abbiamo percepito due sensazioni diverse. Da una parte la passione agonistica e un entusiasmo che ci ricorda quello dell’82, e come allora la voglia di uscire da questa fase un po’ grigia, pessimista, per tornare a sperare. Dall’altra c’è la sensazione, soprattutto tra i più giovani, che la politica non riesca a dare le risposte giuste, che sia vecchia, arretrata rispetto a ciò che questo entusiasmo vuole comunicare. Volevamo sapere che tipo di riflessione ha fatto rispetto a questo evento.
«Intanto sono d’accordo con questa lettura. Per me non è inaspettata questa esplosione di entusiasmo. Mi ha colpito che, fin dalla partita con il Ghana, la sera c’erano persone che festeggiavano per strada. In questo c’è una disperata voglia di allegria, di serenità, di gioia. Il nostro Paese da molto tempo vive in una condizione di tensione molto forte. Prima la vicenda Ricucci, poi quella del calcio, poi quella di Vittorio Emanuele, senza dimenticare il confronto politico caratterizzato da estrema asprezza. Insomma, un Paese che si stava sfarinando, con un elemento di cupezza psicologica. Il calcio ha da sempre una componente di allegria. Poi c’è un elemento di orgoglio nazionale che dobbiamo salutare molto positivamente. Che ci siano molte bandiere tricolori, che si sia tornati a cantare l’Inno d’Italia è assolutamente positivo, soprattutto in un Paese che è stato sull’orlo di una secessione, di una divisione tra Nord e Sud. E credo che dobbiamo a Carlo Azeglio Ciampi il fatto di aver restituito, perfino simbolicamente, un forte senso di identità e di appartenenza nazionale. Questo bisogno di serenità, di allegria non lo considero alternativo all’impegno politico».
Lei ha fatto il paragone con l’82, io lo vorrei fare con il ‘96, quando l’Ulivo vinse le elezioni e lei insieme a Prodi andaste a Palazzo Chigi. Allora l’entusiasmo fu molto più forte, la partecipazione molto più passionale perché fu un periodo di grande cambiamento. Oggi, dieci anni dopo, la vittoria lascia un po’ di amarezza. Allora si fece un governo snello, oggi un governo mastodontico. Allora c’erano alcune proposte di governo chiare, oggi sembra si navighi a vista. Allora c’era compattezza , almeno nei primi tempi, oggi vediamo ministri e sottosegretari che premono verso direzioni diverse. Il rischio è che tutto questo crei disillusione e perplessità nell’elettorato e nei militanti.
«Sono convinto che nei mesi passati si sia sottovalutato, ed io lo feci presente, la portata della modifica della legge elettorale. Che ha cambiato la cultura politica del Paese, reintroducendo un elemento identitario in una fase di difficoltà e debolezza dei partiti. È venuto meno quello che aveva determinato l’entusiasmo del ‘96, e cioè la sensazione che si facesse parte tutti insieme di un grande campo, che questo campo dovesse non solo sconfiggere il centrodestra, ma impostare una fase di innovazione, che vi fosse una priorità che era la coalizione, i suoi valori ed il suo programma. La nuova legge elettorale, che è passata secondo me con eccessiva facilità, ha reintrodotto un elemento di dinamica identitaria partitica. Il problema è oggettivo. Quando si ha un Parlamento in cui ci sono parlamentari eletti non in nome della loro coalizione, ma in nome del loro partito, è chiaro che l’interesse prevalente è quello di difendere e rappresentare le ragioni del proprio partito, non della coalizione. C’è stato il capovolgimento di quella grande acquisizione che noi avevamo fatto, seppur contraddittoriamente, a partire dal referendum ‘91. E questo avviene paradossalmente in un momento nel quale non abbiamo grandi identità di partito come potevano avere la Democrazia cristiana, il Partito socialista, il Partito repubblicano, il Partito comunista, ma i soggetti politici sono molto fragili, effimeri; e stano pensando a come trasformarsi».
Il Paese ha bisogno di stabilità, serenità, entusiasmo: come darglieli?
«Intanto c’è bisogno ci sia un rapporto più diretto tra il voto e l’azione di governo. Ciò si può raggiungere solo per via politica o istituzionale. Non si torni a votare con questa legge elettorale. Se lo facciamo, consegniamo il Paese alla instabilità. Va ristabilita la priorità delle coalizioni, e questo può avvenire in due modi: con un sistema elettorale maggioritario a doppio turno, o con un sistema elettorale maggioritario a turno unico. Sono convinto che uno dei più gravi errori sia stato il fallimento per poche decine di migliaia di voti di quel referendum che cancellava la parte proporzionale della legge elettorale. Se la questione non si vuole affrontare in termini di legge elettorale, bisogna affrontarla in termini di assetto istituzionale del Paese».
A che tipo di riforme pensa?
«Faccio questo ragionamento: un presidente del Consiglio deve avere la possibilità di usare gli strumenti necessari per garantire decisioni politiche ad una società veloce come la nostra. C’è altrimenti un rischio democratico, perché tra una società veloce ed un sistema politico lento, alla fine si apre una frizione che - come è già successo, perché il fenomeno Berlusconi nasce da qui - aprirà la strada a soluzioni semplificate».
Per entrare più nello specifico?
«Domandiamoci: qual è la legge elettorale che ha funzionato di più? Quella dei sindaci. Cosa erano le città prima del ‘93? Il regno dell’ingovernabilità, della corruzione, della instabilità politica, del dominio delle correnti. Come si sono trasformate dal ‘93 ad oggi? Sono il principale motore della crescita italiana, il 70% degli investimenti pubblici viene dalle città. E questo perché la legge elettorale ha funzionato, perché c’è stabilità, perché si sono compiuti dei cicli politici. Tornando alla differenza rispetto al ‘96: allora si aveva la sensazione che si aprisse un ciclo, questa volta sivoleva mandare a casa Berlusconi. Sono due cose diverse. O restituiamo al Paese la sensazione che si apre un ciclo - e per farlo bisogna creare le condizioni istituzionali - oppure ci troveremo a dover trattare ogni giorno con i senatori “ribelli” e a dover mettere in continuazione la fiducia. Il governo sta facendo meglio di quanto si possa fare. Il problema è cambiare le condizioni. Quindi è fondamentale che la seconda fase della legislatura sia dedicata a questo obiettivo con una Commissione costituente. Se pensassimo di arrivare al 2011 così, tradiremmo anche il voto del referendum: sbaglia chi pensa che il referendum sia stato solo un “no”. Il referendum dice che gli italiani sono consapevoli che si debba cambiare la Costituzione, ma va cambiata nel segno della Costituzione, non contro di essa».
Non crede che ci sia anche il problema di un ricambio generazionale della classe dirigente politica?
«Penso che quello del ricambio generazionale sia un problema che viene dopo. Il ricambio generazionale ci sarà, se ci sarà, quando si avrà la sensazione che chi viene chiamato ad esercitare responsabilità di governo può realizzare gli obiettivi. Nelle condizioni date si può certamente dire che è utile la presenza di trentenni e quarantenni, ma non è questo il punto. Se il compito oggi è quello di tenere insieme degli equilibri non c’è quell’elemento di spinta che può naturalmente motivare una persona di 30-40 anni a fare una esperienza che la impegni. Ci deve essere la sensazione che si apre un ciclo».
La sinistra, in tutto questo?
«Anche noi, come sinistra, dobbiamo smetterla di avere paura del fatto che vi possa essere un equilibrio tra decisione e potere rappresentativo. Anzi è necessario che ci sia un equilibrio che in qualche misura guardi un po’ di più verso la decisione, altrimenti concorreremo a costruire un Paese in cui si fanno mille assemblee, riunioni, commissioni, ma alla fine non succede nulla. Quanto ci si mette a prendere una decisione, a cambiare una legge e a vederne l’attuazione? Quanto il presidente del Consiglio che vuole fare una cosa riesce a farla esattamente come voleva che si facesse? Questo è il problema».
E la soluzione?
«Un sistema istituzionale analogo a quello dei sindaci, che naturalmente abbia una serie di bilanciamenti. Il potere esecutivo deve poter realizzare il programma e il Parlamento deve avere un potere di indirizzo, di controllo ancora più marcato di oggi. Questo è un equilibrio che non dobbiamo avere paura di costruire».
Per quale motivo diceva che a una nuova legge elettorale bisognerà lavorare nella seconda parte della legislatura? Non c’è il rischio, in questo modo, di trascinare troppo avanti questa questione dando più forza, poi, a quelle forze anche interne al centrosinistra che non vogliono mutamenti?
«In questa fase c’è una emergenza drammatica, che è la situazione finanziaria. Giustamente ora il governo se ne sta occupando. Inoltre ritengo opportuno aspettare la seconda fase della legislatura perché quando si cambia legge elettorale si attiva un meccanismo ad orologeria che termina con le elezioni. Sarebbe ragionevole dire: la prima parte della legislatura è fatta per mettere a posto i conti e avviare alcune grandi riforme di struttura, la seconda parte per impostare una riforma istituzionale riguardante la legge elettorale. Questa è anche la grande prova della nostra coalizione, perché è chiaro che se l’Unione è dominata da piccoli interessi particolari poi non potrà pensare di candidarsi con la forza necessaria».
Questa legge elettorale, oltre ad essere proporzionale, ha anche dato grande potere alle segreterie dei partiti. Una delle riforme non dovrebbe essere quella di riuscire a trovare forme di rappresentanza che diano maggior voce ai cittadini?
«Sono d’accordo, però diciamoci le cose come stanno. Non va bene il meccanismo per cui sono le segreterie dei partiti che decidono chi viene eletto. Il Pci con altri sistemi riusciva a portare in Parlamento Leonardo Sciascia, Alberto Moravia, Natalia Ginzburg, Guido Rossi, Stefano Rodotà, Andrea Barbato, Massimo Riva, e potrei continuare. Il problema però non si risolve reintroducendo le preferenze ma, se non cambierà l’equilibrio istitruzionale, riportando a forme dirette di rapporto tra l’elettore e il suo rappresentante».
Qual è il sistema elettorale più congeniale, secondo lei?
«Un sistema uninominale con le primarie di collegio. Ma questo, ovviamente, chiama in causa l’assetto politico, perché non si può continuare a far precipitare sui collegi i rappresentanti dei partiti. E questo chiama in causa il soggetto politico protagonista dell’alternativa, dell’alternanza, perché è chiaro che se una coalizione è fatta di tanti partiti resteremo sempre a metà strada. Se invece ci fosse un soggetto politico ampio e unitario, quel soggetto politico si potrebbe misurare con le primarie».
Cioè?
«Cioè nel collegio ci andrebbero più candidati dello stesso partito che verrebbero poi scelti dagli elettori. Quello selezionato, sarebbe il rappresentante in quel collegio. Questo è dal mio punto di vista il meccanismo corretto».
Chiamiamo le cose con il loro nome: partito democratico. Uno dei nodi fondamentali della discussione è la collocazione internazionale. Non trova un po’ provinciale, se non velleitario, voler stare fuori da tutto ciò che esiste in Europa?
«Il punto fondamentale è: vogliamo o no fare questo nuovo soggetto politico? Dichiarazioni e comportamenti spesso sembrano contraddirsi. Tutti dicono che c’è questa esigenza, ma la sua traduzione in atti è molto scarsa. Il problema che pone questa innovazione chiama in causa due generosità o, se vuole, due intelligenze (spesso le due cose coincidono): la prima è la generosità e l’intelligenza di capire che c’è una grande casa del campo riformista europeo, che si chiama Partito socialista europeo. È lì che stanno Tony Blair, Zapatero, il Partito socialista francese e gran parte del campo progressista e di centrosinistra europeo. Non si può far finta che non sia così. La seconda generosità e intelligenza è quella di capire che, detto questo, anche i confini del campo socialista si devono allargare. Lo sostengo da dieci anni. Non c’è dubbio che oggi nel centrosinistra ci siano più cose di quante ne contempli l’identità socialista. Ci sono cose che fanno parte del nostro sistema di valori e però non si definiscono socialiste, un’espressione la cui decriptazione oggi è complessa».
Questo discorso chiama in causa anche l’Internazionale socialista.
«Penso che anch’essa debba trasformarsi. Non è possibile che ci sia oggi un’Internazionale socialista che non ha dentro di sé gli statunitensi, che si debba pensare di avere, magari, più simpatia per qualche partito socialista di qualche paese che ha posizioni non sempre commendevoli piuttosto che per Bill Clinton. Io sono dell’idea, da sempre, che si debba fare una grande casa dei Democratici e dei Socialisti, che si debba aprire, appunto, a soggetti politici nuovi dell’Est europeo come degli Usa, Asia o Africa. E che sia la Casa dentro la quale, naturalmente, ha accoglienza un’ispirazione politica come quella della quale parliamo per noi, ma che sta crescendo anche in tante parti del mondo. Perché è ovvio che con il passare del tempo gli elementi identitari si attenuano, ma non si attenuano le scelte di campo e di valori. Ci sono sempre più forze di centrosinistra e, probabilmente, sempre più difficoltà ad avere un elemento identitario forte».
Al di là delle alchimie necessarie alla costruzione del partito democratico quali ne saranno i valori fondanti?
«Intanto definiamo il perimetro. Non so se parliamo tutti della stessa cosa quando parliamo del partito democratico, è un’espressione tanto larga da contenere idee diverse. Io non penso che sia la casa dei moderati del centrosinistra, né che sia la somma di Ds e Margherita. Penso invece che, in prospettiva, il partito democratico può avere un’ambizione maggioritaria. Maggioritaria in sé. Ma a condizione che abbia dentro di sé un gruppo di culture, di forze, di componenti che si riconoscano sulla base di una comunità di valori, e che sia sufficientemente largo da tenere dentro anche una parte di quella critica radicale della società che non è più ideologica e che si può riconoscere in un contenitore di partito democratico. Negli Stati Uniti, nel Partito democratico c’è Jesse Jackson. Radicalismo e realismo non sono in contraddizione. Oggi porre il problema delle liberalizzazioni è una cosa che ha una sua radicalità, ma è assolutamente realistica».
Come valuta le obiezioni della sinistra Ds?
«Rispetto le obiezioni di Fabio Mussi. Non solo per la stima, l’affetto e l’amicizia che mi lega a Fabio, non solo per la considerazione della sua onestà intellettuale e politica, ma perché sento in quello che dice una preoccupazione giusta. Cioè l’idea che questa cosa non nasca con una fusione fredda tra gruppi dirigenti. Perché allora, non interessa in primo luogo a me. Non stiamo parlando, cioè, della stessa cosa. Io penso ad una cosa nella quale un cittadino si possa riconoscere. E ce ne sono milioni che ce lo chiedono, lo abbiamo visto alle primarie, al referendum, alle elezioni. A tutte le elezioni, l’Ulivo ha preso più voti di quando ci siamo presentati separati. Siamo cresciuti con una cultura politica che diceva che se i partiti erano separati prendevano più voti, adesso è vero il contrario. Gli elettori ce lo hanno mandato a dire da 10 anni a questa parte e noi facciamo finta di non sentire: più il contenitore è largo e più la gente ci si riconosce. Allora, il punto è riuscire a creare un campo largo che abbia una comunanza di valori. Smettiamola di discutere di ingegnerie e comitati e iniziamo a discutere una Carta dei valori, cioè cos’è un Partito democratico».
Dovesse indicare lei le linee guida di questa Carta?
«Dobbiamo chiederci: che cosa è in una società contemporanea un partito che sia in grado di tenere insieme crescita economica ed equità sociale, che sia in grado di garantire libertà individuale, libertà di scelta e diritti collettivi, che si proponga di avere un’idea di welfare community che contrasti, da un certo punto di vista con l’idea del liberismo e, dall’altra, con l’idea del welfare state vecchio modello? Che cosa è una politica che si fa lieve, che non ha più il grado di invadenza e di intrusione del passato? Penso che su questa base sarebbero milioni gli italiani che avrebbero voglia di partecipare».
A proposito dell’allargamento dell’Internazionale socialista. Fatico a vederci dentro Hillary Clinton, che applaudiva Berlusconi o i democratici che hanno appoggiato la guerra all’Iraq...
«Però c’è Tony Blair».
Nemmeno quello ci vedrei tanto.
«Però ci sta. E non possiamo avere la presunzione di dettare all’Internazionale Socialista le sue linee e la sua identità».
Sul partito democratico è stata costruita una specie di struttura costituente mentre la via maestra, quella del congresso, non è stata imboccata. Lei pensa che vada fatto subito o immagina un epilogo che arriva solo a cose fatte?
«Noi Ds abbiamo fatto un congresso che ha discusso esattamente di questo tema e che su questo ha espresso una volontà. Non ha deciso la data in cui si costituisce il partito democratico, ma ha deciso che ci si sarebbe mossi per la costituzione di un grande soggetto democratico e riformista in Italia. Il grande lavoro che il segretario del partito sta facendo quindi è in coerenza con il congresso. Valuteranno gli organismi dirigenti del partito come e quando avere una discussione. Però vorrei che facessimo una discussione su un’idea di partito democratico, non sul titolo».
Ma i giovani si interessano di questo? Tutto avviene con il linguaggio auto-referenziale. Come facciamo a far entrare questo dibat-
tito nella dimensione della realtà?
«Sicuramente non parlano di politica in questi termini ma io sono un iper-ottimista. Questo è un Paese che, in fondo, negli ultimi tre mesi ha girato pagina politicamente, seppure con un travaglio ed una fatica disumani. Nelle elezioni amministrative ha dato dei risultati mai visti prima, al referendum ha dato una prova gigantesca: chi di noi immaginava che il 55% degli italiani sarebbe andato a votare il 25 giugno? Il Paese è molto migliore di come noi pensiamo. Credo di conoscere abbastanza bene quella generazione di ragazzi che oggi hanno l’età in cui noi abbiamo cominciato ad occuparci di politica: sono molto diversi da come vengono raccontati, non sono privi di interessi. Ricordo che quando stavo a scuola, non eravamo tutti Franco Russo: anche da noi c’era quello che se ne fregava ed andava a giocare a pallone. Io vedo i ragazzi, e so che parlano delle cose che io immagino dovrebbero far parte dell’alfabeto di questo partito democratico: parlano di volontariato, di solidarietà, di impegno culturale, di etica. È chiaro che se si chiede: “Cosa pensate dell’ultima posizione presa dalla componente dei Popolari?”, non sanno di che si parla».
Sui Pacs hanno le idee abbastanza chiare.
«Su tutti questi grandi temi, che li chiamano in causa, hanno una gran voglia di partecipare. Il problema, però, è che bisogna incrociarli, incontrarli, bisogna parlare il loro linguaggio, bisogna anche ascoltarli e dargli un campo largo nel quale nessuno gli chieda di entrare in un recinto le cui caratteristiche e logiche stentano a capire. C’è una società civile molto generosa e ricca che ogni volta ci dà delle dimostrazioni...migliaia di ragazzi sono venuti a discutere al Festival della Filosofia. C’è una grande domanda di senso. Diciamo la verità, se la politica avesse viaggiato rasoterra quando noi eravamo ragazzi, chi l’avrebbe incontrata? Noi avevamo una politica che volava, forse, perfino troppo alto, però che ci trasportava... In fondo, stiamo parlando esattamente della stessa cosa, cioè di come reintrodurre nella politica italiana una leggerezza - nel senso calviniano - dei partiti a cui corrisponda una forza culturale, ideale e di valori che oggi non c’è. Oggi abbiamo il contrario».
Qualcuno - Bersani o anche Berselli - dice che sostanzialmente il partito democratico è il decreto sulle liberalizzazioni, la capacità di attuare il programma di governo.
«Sono d’accordo. Qui sono alcune grandi questioni, ma ne vedo altre. Immagino che un grande piano nazionale per l’Università sia una di quelle scelte che qualificano un governo con una forte identità riformista e democratica. La liberalizzazione è una scelta di questo tipo. È per questo che la prima cosa che il centrosinistra deve avere a cuore è la stabilità del governo. Se questo governo ce la farà, il centrosinistra avrà la possibilità di fare quello che stiamo discutendo. Se non ce la farà, si pagherà un prezzo che durerà anni».
Ho l’impressione che i tassisti romani non siano molto d’accordo con il partito democratico... Queste resistenze come vanno affrontate rispetto a temi così importanti?
«Il discorso è molto semplice. Primo: c’è un problema, il bisogno di più taxi nelle strade. È incontrovertibile: penso alla mia città che in questi anni è enormemente cresciuta dal punto di vista turistico, non nel numero dei taxi. Siamo l'unica città, peraltro, che è riuscita ad ottenere senza un’ora di sciopero 450 licenze di taxi in più. La concertazione, certo, è faticosa, però alla fine si ottengono dei risultati. Quello che credo bisogna dire ai tassisti è: "Noi vogliamo raggiungere questo obiettivo, come? Discutiamone". Se ci si mette dalla parte dei cittadini e della salvaguardia dei loro diritti, ma al tempo stesso si trova il punto di equilibrio, ce la si fa».
La questione di un partito più grande si è posta anche in passato e a bocciarla qualche anno fa fu D’Alema. La storia sarebbe cambiata se già allora si fosse imboccata questa strada? E poi: lei parla di politica leggera e non intrusiva. Eppure per anni a sinistra la politica è stata pesante ...
«Questo è un momento storicamente molto importante per la sinistra italiana, che ha avuto due difetti: uno è di avere troppo spesso lo sguardo al passato, anche recente. Secondo: c'è sempre stato un forte legame tra i destini personali ed il destino collettivo. In questo momento va evitata l'una e l'altra cosa. A me oggi interessa che ci sia tra di noi, e c'è, una convergenza sulla necessità di dare vita a questo soggetto nuovo. Quello che è stato prima, francamente, è stato. Dobbiamo abituarci ad immaginare e a pensare il futuro piuttosto che a coltivare il passato. Deve essere chiaro che questa prospettiva la stiamo facendo per le generazioni che verranno, dobbiamo costruirla e consegnargliela. Non è questione che riguardi neanche più la mia generazione. Vorrei ricordare una cosa che riguarda questo giornale: il giorno in cui, subito dopo le elezioni perdute del 1994, scrissi un fondo nel quale proponevo la parola "centrosinistra". A quel fondo rispose Martinazzoli. Era la prima volta che si usava la parola "centrosinistra", perché fino a quel momento eravamo per l'alleanza dei Progressisti, per l'alleanza di sinistra. Non fu semplice, anche allora ci furono discussioni, riserve, obiezioni, si disse: "No, è meglio dire sinistra-centro". Avemmo il coraggio, e questo è uno dei grandi ruoli che l'Unità ha assolto ed assolve. Ed è per questo che l'Unità è indispensabile nella vita politica e culturale di questo Paese: ci sono momenti nei quali bisogna avere il coraggio di dire le cose che magari appaiono meno ovvie. Ma, in fondo, la grandezza della politica è proprio questa, saper immaginare e progettare il futuro. Così come allora fu giusto dire "centrosinistra", oggi è giusto dire quello che dal centrosinistra discende, e cioè l'idea di un'aggregazione più ampia e più vasta. Inoltre, quando dico "politica lieve", non mi riferisco ovviamente alla passione politica, ma al grado di pesantezza. Non quella degli apparati, ma la pesantezza di approccio culturale dei partiti alla vita sociale, cioè il grado di autonomia, di rispetto delle dinamiche, delle competenze. E i partiti svolgono una funzione fondamentale della vita di una società, a condizione che non siano semplicemente strumenti di gestione, divisione e organizzazione del potere, ma siano strumenti di proposta, di organizzazione della vita sociale. Questa è la politica lieve».
A proposito di cambio di passo del governo, in queste ore si avverte un pauroso ritardo e una certa confusione di linguaggi e, forse anche di idee, sulla riforma degli apparati dello Stato. Non vede una impasse su queste questioni, quando un comunicato di Palazzo Chigi viene travisato e usato in difesa degli attuali vertici dei servizi di sicurezza da coloro che prima li utilizzavano per strane operazioni?
«È una parte della ridefinizione degli assetti istituzionali del Paese, ai quali ho fatto riferimento. Penso che Giuliano Amato abbia ragione a dire che la grande questione da affrontare è la riforma dei servizi. Da troppo tempo viene posposta. Ci si cominciò ad occupare della questione già nel '96, con un disegno di riforma complessiva dei servizi che poi non si fece. Ora c'è bisogno di riconoscere il grande lavoro che compiono gli uomini degli apparati dello Stato. E, al tempo stesso, servono regole, certezze e trasparenza».
Nel ’96 il confronto era tra Berlusconi e Prodi, nel 2006 di nuovo tra Berlusconi e Prodi. L'elemento di novità assoluta sono state le primarie, che però forse proprio il popolo delle primarie avrebbe voluto allargate a tutti i leader del centrosinistra. Come si arriverà a designare il prossimo leader?
«Dipenderà dall'assetto istituzionale e politico in cui ci troveremo. Se le condizioni rimarranno le stesse, avverrà come stavolta. Le primarie di coalizione sono complicate, perché se si candidano i leader dei partiti portano con sé il consenso del proprio partito. Le primarie hanno senso in un soggetto unico, con una rosa di candidature. Se ci sarà un soggetto unico, probabilmente potremo avere primarie con diversi candidati. Ma se avremo una coalizione, sarà inevitabile convergere di nuovo attorno ad una candidatura che esprima il maggior numero possibile di consensi. Vero è che le primarie sono state una cosa straordinaria: 4 milioni di persone sono andate, hanno pagato 1 euro, hanno fatto la fila per votare. Io giro per il mondo, e dovunque mi chiedono delle primarie: è un fenomeno gigantesco».
Il ministro Mastella dice "Capisco chi chiede l'aministia". Come vede la questione?
«Per anni mi sono disamorato del calcio. Non vedevo più le partite perché avevo l'impressione che il calcio fosse una cartina di tornasole dei difetti del Paese. Oggi vivo con la stessa intensità, persino con la passione dei ritorni di fiamma, la vicenda della Nazionale. Mi sono complimentato con Totti perché stanno facendo un meraviglioso e grandissimo lavoro. Se il calcio italiano avrà un futuro sarà legato al risultato della Nazionale di questi giorni, che ha restituito anche ai ragazzini la passione che si stava spegnendo. Mesi fa, dissi a Lippi: "Il futuro del calcio italiano è in mano tua", per fortuna sul piano delle competenze tecniche è in ottime mani. Detto questo, sono contrario a ogni amnistia. Non può essere legata ai risultati positivi della Nazionale. Non c'è nessuna relazione tra le prestazioni di Luca Toni e le decisioni che si prenderanno. Bisogna però stare attenti che in giudizio siano garantiti i diritti di tutti».
Qual è la priorità?
«Bonificare il calcio. Trovo molto corretto l'atteggiamento della Juventus. Ho apprezzato le dichiarazioni di John Elkann e dell’avvocato della squadra, molto più serie e responsabili di altre. Ma è chiaro che bisogna girare pagina nella storia del calcio. L'amnistia sarebbe il contrario».
Davvero l'Internazionale socialista deve allargarsi ai Democratici Usa? Immagino che Blair sarebbe d'accordo. Ma è una posizione che interferisce nella geopolitica e nell'identità europea. C'è un rapporto storico, un'alleanza importe, ma anche una distinzione e un'identità molto forte.
«Sì, c'è un'identità europea, ma non una posizione coerente di tutti i partiti socialisti sull'Europa. Ci sono partiti socialisti nel Nord Europa che hanno posizioni diverse dai colleghi del Sud Europa. Ho l'impressione che parliamo di un contenitore, il Partito socialista europeo, che ha già tanti linguaggi. Si tratta solo di riconoscere che questi linguaggi oggi hanno un recinto determinato dall'identità socialista. Si tratta di accettare che il recinto rimanga largo, anche con forze che non hanno la stessa identità. Il Partito popolare europeo ha fatto la stessa operazione: ha trasformato la sua identità. Sarà bene o male, ma non è più il Partito di Adenauer, dei popolari o dei democristiani europei. Sarkozy non è certo legato alla tradizione di Adenauer, eppure è parte di quel movimento. Perché, allora, il Pse deve essere l'ultima frontiera identitaria e "ideologica" e non, invece, un campo largo quanto il centrosinistra e le diverse componenti dell'Europa?»
Lei ha parlato della funzione fondamentale de "l'Unità". Quasi 6 anni fa c'è stata una sorta di "passaggio di testimone" ideale: Furio Colombo e io siamo entrati in questo giornale e abbiamo trovato una redazione in gran parte formata dal direttore Walter Veltroni. La volevo ringraziare per aver creato la redazione che ha fatto questo giornale.
«Nel 2000 mi sono trovato da segretario Ds nella condizione più dura della mia esperienza politica, e forse anche umana. Ho dovuto decidere la chiusura del giornale discutendone - ricordo le assemblee a Botteghe Oscure - con persone con cui si era stabilito negli anni un meraviglioso rapporto di amicizia, oltre che di sintonia professionale. Posso dire che nella mia vita politica è stato il momento di maggiore solitudine. Avevo lasciato l'Unità nel '96, quattro anni dopo mi sono trovato a non poter fare altro, altrimenti sarebbero andati a fondo insieme l'Unità ed il partito. Devo ringraziare Pietro Folena e dargli atto di una grandissima solidarietà umana ed operosità, perché allora circolava in maniera diffusa l'idea che de l'Unità non ci fosse più bisogno. Pietro ed io ci ostinammo nell'idea di far riuscire l'Unità e cercammo di comporre una struttura che potesse favorire l’obiettivo. Chiedemmo a voi di dirigere il giornale perché immaginavamo un giornale a forte componente di cultura "liberal" . E se si pensa a l'Unità di questi anni, non è stato altro che un giornale liberal, con tutte le sue radicalità. Sei anni dopo il giornale è quello che è oggi ed è merito vostro. Ma per quanto mi riguarda è la dimostrazione che non avevo torto. Che dell’Unità c’era e c’è ancora bisogno».