Fu il Corriere della Sera del 9 febbraio 1944 a dare la notizia dell'arresto di Indro Montanelli, accusato di aver scritto articoli diffamanti sul regime. Indro si trovava allora in casa di Mario Motta, sul lago d'Orta, sul punto di raggiungere il gruppo partigiano guidato da Filippo Beltrami, successivamente morto in combattimento. Incarcerato insieme alla moglie Maggie a Gallarate, il 9 maggio fu trasferito a San Vittore dove rimase fino al 14 agosto, quando riuscì a fuggire riparando in Svizzera. In questi mesi di prigionia gli unici contatti con la famiglia — con i genitori e con Maggie — erano assicurati attraverso la circolazione clandestina di biglietti scritti a lapis, poi raccolti con cura dall'amico Gaetano Greco Naccarato e oggi conservati nell'archivio della Fondazione Montanelli Bassi. Tra questi spicca per interesse la lettera inedita qui di seguito pubblicata, destinata a Piero Parini, allora prefetto di Milano, nella quale Montanelli, per difendersi dall'accusa di «tradimento», ricostruisce puntualmente la storia del suo distacco dal fascismo. Il documento, che non è datato, riveste particolare importanza perché, rivolgendosi dal carcere a un esponente del regime, il prigioniero avrebbe avuto tutto l'interesse a sfumare il proprio antifascismo, che invece viene apertamente rivendicato, sia pure come tappa conclusiva di un percorso graduale iniziato nel 1938. Va detto tuttavia che la lettera non fu mai recapitata, come ci informa una nota marginale di mano dello stesso Greco Naccarato, che avrebbe dovuto inoltrarla. Probabilmente l'amico giudicò il testo troppo temerario e preferì conservarlo a futura memoria». Alberto Malvolti, Presidente della Fondazione Montanelli-Bassi.
«Dal regime non ho avuto nulla, è assurdo chiamarmi traditore»
di Indro Montanelli
E ccellenza, non è per chiederle aiuto che le scrivo, ma solo per chiarire un equivoco che mi pesa più di qualunque accusa. La prego perciò di leggere queste righe, anche se illegalmente trasmesse. L'equivoco si riferisce al mio cosiddetto «tradimento». Io tradii nel 1938. Fu in quell'anno che io, spontaneamente, rinunziai alla tessera, alla qualifica e al giuramento di fascista; e fu in quella occasione che tornando da Tallinn, indirizzai proprio a Lei una lettera in cui Le annunziavo le mie dimissioni dalla D. I. E. (Direzione dei fasci Italiani all'Estero, ndr) motivandole con tre ordini di ragioni: il Suo ritiro dalla Direzione, il mio desiderio di tornare alla letteratura e la mia divergenza, oramai irrimediabile, dalle direttive ufficiali.
Di questa lettera forse Lei non si ricorderà, ed io non ne conservo copia. Ma la lesse un nostro comune amico, Lamberti Sorrentino, che anzi in alcuni punti la modificò. Poco dopo fui invitato al Corriere
dal suo direttore Borelli. Gli feci presente la mia situazione di non fascista, per la quale egli non potè assumermi come redattore, sostituendo a tale qualifica quella — molto meno vantaggiosa — di collaboratore. Resistei in seguito alle pressioni di Borelli di farmi riprendere la tessera, e redattore diventai su sua personale responsabilità. Sono rimasto non fascista sino al '40, quando diventai categoricamente antifascista. Cosa di cui non feci mistero nemmeno in sede ufficiale. Richiamato da Pavolini allora ministro della Cultura, mi difesi dall'accusa di antifascista militante (che infatti era falsa, poiché non militavo in nessun partito), ma riconobbi francamente la mia disapprovazione per l'alleanza tedesca, per la guerra che avremmo perduta e, in particolare, per le direttive sulla propaganda. Richiamato da Senise, ribadii, anche sotto minaccia di confino, queste mie opinioni. Come vede, non potevo essere più esplicito. E la mia franchezza non fu mai messa in dubbio, come dimostrò l'incidente, abbastanza conosciuto a Milano, quando in un noto salotto antifascista a Dino Alfieri, che pure lo frequentava e che mi usò una villania, risposi che un regime, che teneva a Berlino un ambasciatore come lui, non poteva che perire. Altri episodi? Le mie visite a Croce, la mia familiarità con la Principessa di Piemonte, i miei stessi articoli che, sub specie litteraturae nascondevano sempre qualche critica al Regime e mi procuravano «grane» a ripetizione. E tuttavia non ero ancora militante. Militante diventai solo alla fine del '40 su invito di B. Croce, di Gallarati-Scotti e di Albertini, nel loro partito di «Ricostruzione liberale». Ma militante in un senso puramente dottrinario, cioè in quel senso che, con la pubblicazione di Critica era evidentemente tollerato dal Regime.
Al quale Regime che cosa dovevo io? Nulla. Non una giurata fedeltà, poiché mi ero spontaneamente ritirato dal giuramento. Non personali vantaggi, perché credo di essere l'unico giornalista italiano che non ha mai ricevuto un soldo dal Ministero (Mezzasoma e i suoi uffici possono, magari a denti stretti, testimoniare), nemmeno sotto forma di premio letterario. Non una situazione politica, perché non ne ho mai avuto una, nemmeno modestissima. E allora, chi e che cosa ho tradito?
Il 25 luglio fui felice. Scrissi da allora, due articoli sul Corriere
(rintracciabili, perché firmati) di critica molto ironica al Fascismo, ma anche molto mite, voglio dire molto più mite di quella fatta dipoi dai Gray, Pettinato etc.; e la cui tesi era questa: «I Fascisti hanno commesso un mare di sciocchezze, ma non facciamo loro del male perché la maggior parte erano in buona fede». Questa morale anche la praticai. Domandi al Corriere
come mi comportai con Borelli; domandi se non è vero che Lilli, Tomaselli etc. non furono licenziati soprattutto per mia intromissione. (...) Non me ne pento, e tornerei a farlo domani, anche dopo le sofferenze subite in questi ultimi cinque mesi. Forse Lei ignora, Eccellenza, che cosa significa sapere la propria moglie in galera nelle mani di una polizia che non si stancava di ripeterle: «Suo marito sarà fucilato domani. Abbiamo arrestato a Innsbruck suo padre e sua madre. Suo padre è morente per lo choc subito». Perché questo è stato fatto a mia moglie. Forse Lei ignora cosa significa sapere la propria casa razziata e ora abitata dal proprio peggior nemico (...). Forse Lei ignora cosa significa sapere il proprio Babbo e la propria Mamma pazzi di angoscia. Sentirsi ripetere «La sua fucilazione è inevitabile», sapersi innocente e non potersi difendere. E agonizzare per mesi nel reparto dei condannati a morte, fra gente pazza di terrore. Tutto questo, per cosa? Per sentirmi dire ieri, nel quinto ed ultimo interrogatorio: «Riconosciamo che Lei non è mai stato un bandito né una spia. Però Lei è un antifascista e un antitedesco». Sicuro che lo sono. E se non lo fossi stato, lo sarei diventato dopo questa prova. Perché un governo che consegna i suoi sudditi allo straniero, che non concede loro la minima garanzia di difesa e che tiene in galera una donna sotto la seguente accusa: «Conoscendo le opinioni del marito, non lo denunziava» (testuale), non merita di governare. Inutile scrivere sui giornali che le opinioni sono libere e che si condanna per i gesti compiuti, non per le idee professate. Già, ma San Vittore è pieno di gente non solo condannata, ma anche abbondantemente picchiata, solo per le idee professate. E Lei non ignora certamente le gesta di Melli, Colombo, Manfredini e compagni. Non le ignora, e certo non le approva, anche se non può pubblicamente disapprovarle. Perché Lei è un gentiluomo. Io, antifascista, riconosco che fra i fascisti ci sono dei gentiluomini. Esigo che costoro, a loro volta, riconoscano che anche fra noi antifascisti ci sono dei gentiluomini e che io sono del numero. In mancanza di altro, basterebbe a provarlo il mio contegno di fronte ai tedeschi. Lei che lo può, si faccia mostrare al Regina (l'hotel sede del comando della Gestapo, ndr) la mia pratica e guardi in che modo mi sono condotto con i miei giudici. Lo riconobbero lealmente essi stessi, quando mi dissero che rincresceva loro di dover fucilare un soldato franco e coraggioso come me. Non mi vanto. Riferisco dei fatti, che a Lei sarà facile appurare. Ora, un uomo che non perde la sua dignità di fronte alla morte, non è, non può essere, un traditore. Che tale mi creda qualcuno non m'importa. Ma mi addolorerebbe molto se tale mi credesse, come sembra, Lei. Perché alla Sua opinione ci tengo.
E glielo dico ora che non ho da chiedere più niente. La mia pratica è archiviata. Mia moglie è in galera con me, ed è felice di dividere la mia sorte. Del mio piccolo patrimonio ho perso tutto, fin l'ultimo paio di scarpe. Ma sto benissimo come sto.
Eccellenza, Le ho detto sopra che tengo alla Sua stima. Ci tengo perché a mia volta la stimo. Basti a dimostrarlo il fatto che commetto, scrivendole, una illegalità che, se Lei la rivelasse, potrebbe costarmi molto cara. Ma la commetto ugualmente perché sono sicuro della Sua onestà. A sua volta mi creda se le dico da uomo a uomo, che anche Lei può essere sicuro della mia.
Che dire? Indro faceva parte dei "Grandi Uomini", davvero grandi.
di montanelli nn mi stancherò mai di leggere qualcosa,che riguarda lui..lo porterò sempre nel mio cuore e nella mia mente,gli voglio un bene infinito,gente di carattere nn ne vedo in giro,il suo andare contro corrente le sue battute,la sua prosa che ti entra in testa come l acqua che bevi semplice e diretta.montanelli mi manchi.
Montanelli mi ha deluso . Siamo i soliti voltaggana