Francia, l’enigma Sarkozy alfiere della nuova destra
Aveva criticato il vecchiume di Chirac ora attacca il ’68.
Cambia toni puntando all’Eliseo
di Gianni Marsilli
È ORMAI BENE in sella, e cavalca da solo verso l'ultimo duello. Il suo imponente quadrupede, ovvero l'Ump di cui è presidente, obbedisce senza più scartare e tanto meno rompere. L'amata e irrequieta Cecilia è di nuovo al suo fianco, e suggella con un bacio i suoi infuocati comizi. Lo stesso primo ministro de Villepin ha deposto le armi e riposto in un cassetto le sue ambizioni. Non potrebbe essere altrimenti: pressoché l'intero governo è ormai alla corte di Sarkozy, e al premier conviene far buon viso a cattiva sorte. Tanto più che hanno tutti da guadagnarci. La Francia torna a crescere, e la disoccupazione è scesa sotto il 9%: il gioco di squadra s'impone. «Sarko», come lo chiamano tutti, non ha quindi più rivali in casa. Lo sa bene, e infatti ha cambiato tono.
Era partito, un paio d'anni fa, con il Leitmotiv della «rupture»: generazionale, ma soprattutto di modello di sviluppo. I ranghi non molto folti dei liberisti francesi erano al settimo cielo. «Rottura», per loro, significava una sola cosa: meno Stato e meno Welfare, più privato e più impresa. Ma ecco che da qualche tempo Sarkozy imprime ai suoi interventi accenti diversi. Da buon pragmatico si adatta alle diverse platee. «Né Thatcher né Reagan», ha detto recentemente rivendicando l'originalità del modello francese. Due giorni dopo, però, eccolo davanti agli imprenditori spezzare una lancia contro il diritto di sciopero, denunciando «la dittatura delle minoranze» che bloccano il lavoro senza che si passi attraverso un voto a scrutinio segreto. Come fece Thatcher nel lontano '79, prima di annichilire minatori e sindacati. Aveva creato la sorpresa, soprattutto a sinistra, abolendo la doppia pena, condanna più espulsione, croce di tanti immigrati e sans papiers. Ma eccolo minacciare l'espulsione dal paese di migliaia di scolari, figli di sans papiers ma regolarmente iscritti a scuola, e quindi «ereditariamente» irregolari. Stigmatizzava il «vecchiume» della V Repubblica e gli «stanchi esercizi» retorici di Chirac. Ma eccolo, lo scorso weekend, denunciare proprio l'emblema della rottura generazionale, quel '68 «portatore di un'inversione dei valori e di un pensiero unico di cui i giovani d'oggi sono le vittime principali». Si riferiva soprattutto al lassismo scolastico, al fatto che «la scuola è fatta per trasmettere il sapere», e non per integrare i nuovi arrivati nella società promuovendo tutti. Insomma, se da una parte Sarkozy allarga lo spettro dei suoi interlocutori (dai potenziali elettori socialisti a Le Pen), dall'altra rischia di perdere quella coerenza modernista che lo rendeva diverso dagli altri, e quindi appetibile. Gli osservatori si chiedono perplessi di cosa sia l'alfiere: di una destra sociale, di un liberismo popolare (la definizione è sua), di un archeo-gollismo, di un thatcherismo mascherato...
Ma a vedere i giovani, e non solo, che sabato l'applaudivano a Marsiglia il problema appare di lana caprina: gli basta l'uomo, la sua indubitabile energia, la sua giovinezza. Gli va benissimo che si dichiari vicino sia a Tony Blair che ad Angela Merkel: gente di rottura, appunto. Anche se qualche dubbio viene dalle sue stesse fila. Come quello che esprime l'eurodeputato Alain Lamassoure: «Sarkozy deve mostrare in che cosa riesce a porre i problemi in termini nuovi, rispetto alla classica dialettica destra-sinistra». Ed ecco che lui si ricolloca nei classici binari della politica transalpina: «Ho sempre pensato che il bipolarismo sia non solo ineluttabile ma necessario». Ma il suo messaggio complessivo resta multiplo. Un occhiolino agli statalisti, mentre fa piedino ai liberisti. Una concessione ai Pacs («Bisogna andare più lontano»), ma uno stop netto ai matrimoni gay e alle adozioni. Un cedimento all'idea comunitarista, come in Gran Bretagna, ma subito un fermo richiamo ai valori dell'integrazione laica e repubblicana.
Colpisce un certo parallellismo tra Sarkozy e Ségolène Royal, anch'essa in cerca di coerenza e armonia programmatica. Come rileva Eric Le Boucher, editorialista di Le Monde, i due spesso finiscono con il ritrovarsi sulla stessa lunghezza d'onda. Ambedue deplorano il fatto che chi vive di sussidi guadagni più di chi lavora per un salario minimo. Ambedue fanno molti appelli ai «veri valori»: l'ordine, il lavoro. Ambedue rivendicano il diritto e la necessità di un ricambio generazionale. Se Sarkozy crocifigge il '68 per il suo finto egualitarismo, Ségolène Royal e i suoi seguaci denunciano il tappo costituito dai sessantottini ai vertici del partito. Ma non c'è dubbio che i binari dei due, qualora dovessero confrontarsi, riprenderanno a divergere, come in ogni buona, vecchia campagna presidenziale.
interessante, tranne la demagogia anti'68 secondo me. ma d'altronde pure la destra italiana... "i padri contro i figli", disse il nano contro la lotta per l'articolo 18, e mi è parso proprio che il suo becerume sia stato smentito quasi in automatico.
Carolina
Sarkozy fu un grande durante il periodo delle rivolte delle periferie. Sarebbe un bene se finisse davvero lui all'Eliseo
Davvero un grande... un grand eimbecille che con la sua spocchia ha ritardato di giorni la fine delle violenze.
Uno come il sindaco "Uolter" li avrebbe fermati e convinti di aver vinto, senza concedere nulla.
Questa è politica.