Musulmani d’America
di Robert Fisk
Un tizio con gli occhi marroni e la carnagione scura, con un forte accento americano, si avvicina per parlarmi. Immagino sia iraniano, o forse pachistano. Da dove vieni, gli chiedo? «Austin, Texas», è la sua risposta. Ma da dove vieni originariamente, gli chiedo? «Sono nato a Newark, New Jersey». Fisk si schiarisce la voce. Da dove viene originariamente la tua famiglia? Comincio a sentirmi un po’ come un agente della sicurezza nazionale mentre tento di elaborare un profilo razziale del mio nuovo amico.
«Lahore», mi risponde laconico e io tento di salvare un po' la faccia. L'unica bella città del Pakistan, gli dico, e lui mi risponde con un sorriso sprezzante. Vado avanti a commettere lo stesso errore nella sala dove si svolge la più grande conferenza annuale di musulmani americani - ce ne sono circa 32.000 - per un weekend di discorsi e discussioni su temi che vanno dalla tossicodipendenza al «nuovo» e sanguinoso Medio Oriente di Condi Rice, dalle operazioni bancarie senza interessi all'uso della tortura da parte dell'amministrazione Bush e sì, avete indovinato, ovviamente alle conseguenze per i musulmani dei crimini internazionali contro l'umanità dell'11 settembre 2001. Sei giordana? «Denver, Colorado», mi risponde la giovane donna. Nata a San Diego. La famiglia, quella sì, viene dalla Giordania. Libanese, chiedo a un altro? «Buffalo, New York». Ma la famiglia è in realtà siriana. Ci metto un po’ a rendermi conto che sto giocando lo stesso gioco di tanti americani non musulmani dopo i dirottamenti aerei. Sto identificando i nemici del mondo poche ore dopo che il presidente George W. Bush è entrato in modalità paranoica mentre si rivolgeva all'American Legion a Salt Lake City. Aveva appena dichiarato che l'America sta combattendo «la battaglia ideologica decisiva del 21° secolo» per poi lanciarsi nelle vecchie e traballanti argomentazioni sulla pacificazione precedente alla Seconda guerra mondiale per battere poi anche sul tasto di Hitler. Curiosamente, sono i convertiti all'Islam piuttosto che gli americani di origine musulmana ad accusare più pesantemente Bush. «Cerca la guerra eterna», mi ha sibilato un giovanotto con la barba castana e occhi brillanti di un blu profondo. Avete indovinato, veniva dal Vermont. «Dice cazzate e noi dobbiamo stare qui a sentirlo e promettere di essere nonviolenti altrimenti qualcuno ci punterà l'indice contro».
Vado alla ricerca della rabbia tra queste migliaia di musulmani, imprenditori di Seattle e studenti di Harvard e casalinghe di Miami. È lì tra loro, lo so, ma come un amico armeno sottolinea nel pomeriggio, sembrano felici. Ed è vero. Ci sono più sorrisi che espressioni di disprezzo, più bimbi sulle spalle dei genitori e in carrozzina che cartelloni in cui si esprime sofferenza. Anzi i cartelloni non ci sono affatto. Ma sospetto di conoscere la verità. Da soli, nelle piccole comunità presenti in paesi e città degli Stati Uniti, i musulmani americani - più o meno sei milioni di persone - possono sentirsi sotto assedio, oggetto di sospetti e persino di odio. Al centro congressi, tuttavia, sono la maggioranza e hanno fiducia in se stessi, sono soprattutto sunniti - gli sciiti americani, che potrebbero complessivamente essere la maggioranza, non hanno attualmente le stesse capacità organizzative - che se ne infischiano allegramente degli agenti della polizia di stato dell'Illinois e dei poliziotti della squadra antiterrorismo di Chicago. Li osservo mentre, con le pistole che ciondolano dalla cintura, vanno da uno stand all'altro, ispezionando ogni tanto le scatole di libri impilate lungo i muri. Mi chiedo chi pensano potrebbe attaccare i musulmani a Chicago?
Salam al-Marati - è uno dei pochi musulmani che incontro che è nato di fatto nel mondo arabo, nel sobborgo di Qadamiyeh a Baghdad - è direttore del MPAC (Muslim Public Affairs Council), un gruppo di sostegno di Los Angeles che invita più volte i musulmani americani a lavorare con le autorità contro la violenza ma che indica altri pericoli e obiettivi per la rabbia politica dei musulmani: i lobbisti pro-israeliani che insistono in maniera ostentata sul fatto che la grande maggioranza dei musulmani americani sono pacifici e rispettosi della legge ma che sostengono l'esistenza di una «rete di terroristi islamici» diffusa in tutto il paese.
Daniel Pipes è una delle bestie nere, proprio come Steven Emerson, un giornalista freelance che macina un articolo dopo l'altro sulla «jihad americana» per giornali importanti come il Wall Street Journal, che, a proposito, suona sempre più come il Jerusalem Post. Emerson e il suo lavoro sono stati analizzati da al-Marati e dai suoi colleghi in un opuscolo che circola ampiamente e che si intitola «Terrorismo controproducente: come la retorica anti-islamica si è impossessata dell'agenzia per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti». «Chi rappresenta i gruppi pro-israeliani continua a intimidire e marginalizzare chi è critico nei confronti delle politiche israeliane sostenendo che si tratta di un atteggiamento favorevole al terrorismo», dice al-Marati con un misto di rabbia e fastidio. «È un atteggiamento che danneggia l'America, che danneggia l'impegno contro il terrorismo». Maher Hathout, originario del sobborgo di Qasr el-Aini al Cairo e consulente dell'MPAC, è, se possibile, ancora più arrabbiato. «Siamo quel gruppo di americani che non sono intimiditi», dice. «Se vai nei campus universitari gli studenti musulmani sono quelli che parlano con maggiore franchezza. Loro chiedono - e noi chiediamo - come possiamo far sì che l'americano medio che conosce la verità sul Medio Oriente abbia il coraggio di parlarne. Il nostro impegno è quello di dire: “Vergognatevi. Criticate il vostro presidente. Ma quando parlate di Israele, parlate sottovoce”. Che cosa ne è del vostro coraggio?».
Il MPAC - che opera a Chicago sotto gli auspici della Islamic Society of North America, dichiaratamente pro-saudita - ha pubblicato una guida intitolata «Campagna della società civile per combattere il terrorismo», che contiene citazioni dal Corano («Chiunque uccida un essere umano... sarà come se avesse ucciso l'intera umanità») e consiglia ai suoi sostenitori che «è nostro dovere come musulmani americani di proteggere il nostro paese e contribuire al suo progresso». «Ma che cos'è l'identità musulmana americana?» si chiede al-Marati. «I nostri valori religiosi e i nostri valori americani non sono incompatibili. Non c'è dissonanza tra i princìpi fondanti dei valori americani e musulmani. Se non avremo questa identità saremo in trappola. Finiremo per creare ghetti musulmani in America».
A volte, tuttavia, queste donne e questi uomini mi ricordano soprattutto i membri più veementi della lobby israeliana, o di quella armena, con il loro linguaggio sciolto, forse un po’ eccessivamente eloquente, appassionati, e mi chiedo se un giorno non finiranno per trascurare un po’ la realtà dei fatti.