«Da 14 anni il mio lavoro è chiedere l'elemosina Dico grazie ai milanesi»
Il senegalese Sarre: tutti i giorni davanti al supermarket, ho scoperto la solidarietà
di Carlo Lovati
Sono quattordici anni giusti giusti. Che sta lì a quella porta tutta un viavai. L'aria da buono, lo sguardo timido, la parlantina che proprio sciolta non riesce a essere. Oggi come allora. A far la guardia al supermercatino che sta a un passo da corso Garibaldi. Giorno per giorno. Mese per mese. Anno per anno. La cassetta da ambulante che è solo una questione di dignità. Colma di tutte quelle solite cose che servono a poco o nulla. Che lui invece vive della generosità del prossimo. Senza mai chiedere. Regalando sorrisi e simpatia. Raccogliendo una mancia, un regalino. Una moneta al volo.
Di tanto in tanto, magari e meno male qualche pezzo di carta colorato.
Le signore vanno e vengono. I signori pure. E Sarre che augura il buongiorno, che butta là una battutina, che apre quella porta, che prende quei sacchetti pesanti. Che accompagna le nonnine fin su a casa perché come fai a non fidarti di uno come lui. Anche se è così nero, anche se viene da un'Africa così lontana, anche se prega in un modo così diverso.
E sembra ieri, la sua prima volta. Quando si piazzò lì e tutto il suo candore. Arrivato con tanto di visto, poi clandestino per un pezzo, quindi rimesso in gioco da quel santo di Martelli. Era uno dei primi.
Nell'ottantanove dal Senegal a Palermo e subito a Milano. Con le mille illusioni di chi va in cerca di fortuna. Con le mille speranze di chi è pronto a tutto per dare una svolta alla propria vita. Un paio di anni a girovagare con quel commercio fatto di nulla e poi quella porta tutta un viavai che poteva essere, che doveva essere il suo lasciapassare verso un futuro migliore. Sono quattordici anni giusti giusti. E lui sta ancora lì con tutte le sue illusioni e tutte le sue speranze.
Quella porta che si apre e che si chiude. Lui che non riesce proprio a trovare l'attimo per andare oltre. Forse perché ognuno ha la sua fortuna, magari perché ognuno ha il suo destino. Lo sussurra con rassegnazione, Sarre che tutti chiamano Check e non si capisce perché. Inciampando nelle parole. Sfarfallando gli occhi. Pensando a tutti questi anni. Fatti di stenti. Fatti di sacrifici. Fatti di nessuna certezza. Vissuti in un appartamentino con cinque amici. La moglie Kine che sta giù in Africa con i loro tre figli, il più grande che ha sedici anni e il più piccolo otto. Il biglietto aereo per il Senegal troppo caro. Il ritorno a casa una volta all'anno, ma quando proprio va bene. Le telefonate che invece almeno quelle partono tutte le domeniche a mezzogiorno. Le solite tenerezze, le solite domande, le solite emozioni. E la chiamano vita.
Ecco la ragazza che lo saluta. Ecco il pensionato che bonariamente lo piglia in giro. Ecco l'architetto che gli dà una pacca sulla spalla. Ecco la vecchietta che gli porge la sua borsa. Check uno del quartiere. Check uno di famiglia. Lì a quella porta che a volte basterebbe un po' di coraggio per andare oltre, per andare avanti, per materializzare un sogno. Faceva l'autista, quando era giù a casa. Sei anni a guidare le corriere da un villaggio all'altro per strade impossibili. La polvere, il fango, le buche. Ed era questo, che avrebbe voluto fare qua da noi. Un bel pullman, un bell'autobus. Perché no, anche la limousine di qualche bel riccone. L'asfalto liscio liscio. Povero Check che invece è Sarre e non ha nemmeno la patente italiana e ormai le sue primavere sono quarantaquattro. Fare l'autista, avere un posto fisso, portar su i suoi cari. Erano queste le sue illusioni, le sue speranze. Altro che quella cassetta con gli accendini, le statuette di legno, i braccialetti che portano fortuna ma forse solo agli altri. Altro che l'umiliazione di vivere della bontà di quelli che passano e per fortuna tornano.
Grazie signora. Ma che gentile signora. Perché così è... Da quattordici anni giusti giusti. Anche se lui al supermercatino ci sta solo al mattino, perché al pomeriggio riesce sempre a trovare qualche altro lavoretto per arrotondare. Magari con le cooperative. Magari in nero da un amico. Per mandare giù alla famiglia qualche soldino in più. Oggi con ago e filo a cucire gli orli di magliette e pantaloni. Ieri a fare il muratore bianco di cemento e domani chissà che diavolo sarà. Ma sempre e comunque tutte le mattine lì a quella porta benedetta e maledetta al tempo. Che offre piccole ma reali certezze. Che lui non può proprio farne a meno. Perché giorno per giorno è tutta un viavai di brava gente. Da quattordici anni giusti giusti.
Lo stesso Corsera che osanna una neonazista che quelli come "Check" li avrebbe bruciati. Tutti i ragazzi come lui, dal primo all'ultimo. Non è demagogia, è (era, finalmente) la realtà, ed è la contradditorietà propria di tanti ambiti.
paternalismo mieloso