«Ma il vero punto di forza è scorporare la rete»
De Brabant: può permettere gli investimenti per il salto tecnologico
di Edoardo Segantini
Come esce Telecom Italia dalla sua crisi? Quali sono gli interessi del sistema Paese, oggi allarmato dal nuovo, drammatico scossone al vertice? François de Brabant, oggi superconsulente con la società Between, l'azienda e le telecomunicazioni le conosce molto bene, per essere stato il responsabile delle strategie in epoca Pascale, e, prima ancora, cofondatore della società di analisi Reseau: «Telecom — dice de Brabant — come azienda non è in crisi: ha un margine operativo superiore al 40% e un risultato operativo del 25%, ha una storia industriale positiva e un ottimo management. Anzi, se si dà retta ai concorrenti va anche troppo bene, perché mantiene oltre il 70% del mercato...»
E allora?
«Il cuore della crisi riguarda la governance e la finanza. Non c'è bisogno che ricordi il peso di quattro passaggi di proprietà, il fardello debitorio dell'Opa di Colaninno e dell'Opa di Tronchetti Provera su Tim, insomma il percorso accidentato di una privatizzazione senza eguali in Occidente. Realizzata, non a caso, in un Paese che solo saltuariamente si ricorda che le telecomunicazioni sono strategiche. Risultato: oggi siamo in un angolo. O, se preferisce, in una situazione anomala».
In che senso?
«Telefonica e British Telecom sono public company; Francia e Germania hanno ancora lo Stato nel capitale del principale operatore».
Come se ne esce?
«Rinnovando la governance aziendale. Mi auguro che Guido Rossi, con il consenso e supporto del sistema industriale, finanziario e politico, sia messo nelle condizioni di costruire un progetto di public company capace di riportare in equilibrio la situazione finanziaria e lo sviluppo industriale, cioè l'azionariato e l'azienda».
Come valuta la riorganizzazione annunciata?
«Ha due elementi cardine: uno è il ripensamento sulla convergenza fisso-mobile con lo scorporo di Tim. E' la decisione che più suscita dubbi e incertezze. Sia perché segna una svolta a "u" rispetto a una scelta di integrazione fatta in un passato recentissimo, sia perché il mondo sembra andare proprio in questa direzione, anche se magari non con la velocità sperata. Inoltre si lascia spazio a una lettura che vede lo scorporo di Tim come il primo passo verso la vendita. E la vendita è un boccone amaro che il sistema Paese non può digerire».
E la rete?
«Tutt'altra storia. Il passo annunciato ha uno spessore strategico vero. Innanzitutto perché concretizza anche in Italia la soluzione inglese di Open Reach (divisione di Bt; ndr) che garantisce parità d'accesso ai concorrenti, alimentando la competizione nella banda larga. In secondo luogo perché può dare una risposta al tema degli investimenti richiesti sulla rete d'accesso, dovuti alla necessità di sostituire il doppino di rame con la fibra ottica».
Non è sufficiente l'Adsl?
«No. L'ampliamento della banda, la cosiddetta banda super- larga, richiederà investimenti molto cospicui nella fibra ottica con un ritorno nel medio-lungo periodo, tipici delle grandi infrastrutture destinate a coprire l'intero Paese. Cifre che un gruppo super-indebitato non può permettersi. E' bene insomma che ci sia una distinzione tra la logica di chi investe nella media company e la logica di chi investe nella rete».
Si può trovare questo tipo di capitale di lungo periodo?
«Certo che si può trovare. Mi lasci dire però che il tema va un po' de-ideologizzato, uscendo dalla logica stretta del pubblico- privato. Io chiedo: perché non immaginare una combinazione virtuosa di entrambi?» In sostanza?
«Direi che il vertice di Telecom Italia ha indicato due strade: una strategica, che porta allo scorporo della rete d'accesso, e una scorciatoia, che conduce alla vendita di Tim. Una è vista con interesse, ma richiede stabilità, equilibrio, consenso e rispetto dei ruoli. L'altra è più rapida, ma spaventa».
Perché parla di consenso?
«Vede, gli stakeholder di un incumbent di telecomunicazioni sono molto, molto più numerosi di quelli di qualsiasi altra azienda. Telecom, in questi anni, ha perso consenso sia tra i fornitori che sul territorio. L'esempio tipico è il digital divide, il divario digitale tra zone tecnologicamente più o meno fortunate, che è stato un po' sottovalutato».
Qual è il suo giudizio sulla strada della media company?
«Positivo. Ma più che una strada è un'indicazione di rotta. Tutta da costruire».
sono temi importantissimi per il nostro futuro 'quotidiano' e invece se ne parla solo nelle alte sfere della finanza.
dispiace