Lo scontro cristiani-islamici è destinato a salire
L'intervento rammaricato di Benedetto XVI domenica all'Angelus non ha ricomposto lo “strappo”. L'ira per l'offesa, del resto, costituisce una rendita di posizione politica troppo ghiotta per essere derubricata velocemente, fondata su un processo a senso unico: qualcuno si scusa e cerca di riparare, l'altra parte rialza la posta e afferma che non le basta. Tuttavia, la questione non riguarda solo un gioco volto ad “ottenere di più”. Ci sono almeno due corni della discussione nel confronto in atto.
Il primo concerne la specificità e la particolarità del confronto e dello scontro che in questi giorni oppone la Chiesa di Roma e il mondo islamico. E' il tema della legittimità di discutere di del contenuto di una cultura teologica con gli strumenti stessi che quella teologia dispone da parte di chi si colloca fuori da quella tradizione. Al di là del contenuto, la risposta islamica - non quella delle piazze - ma quella degli esponenti di punta del radicalismo riguarda l'uso delle fonti teologiche dell'Islam da parte del Papa. In breve ciò che si rimprovera a Benedetto XVI è di essersi avventurato in un territorio non suo. Un aspetto che di fatto limita la legittimità di parola del Papa. E' uno scontro radicale che non finirà anche se la crisi attuale dovesse rientrare a breve.
Il secondo riguarda la condizione di scontro in atto nel mondo musulmano.
In un passaggio rapido ed efficace il premio Nobel Amartya Sen nota nel suo libro Identità e violenza (Laterza) che una delle vittorie più significative del nazismo sarebbe indurre gli ebrei a ragionare esclusivamente di identità ebraica come se questa fosse il risultato di un processo tutto interno. Analogamente accade nel giudizio sulle sfide che pone il radicalismo teologico in area islamica.
Se noi dimentichiamo che il primo obiettivo del fondamentalismo islamico non è una guerra agli occidentali, ma agli occidentalizzati, ovvero a coloro che dentro l'Islam sono per loro scelta il risultato o la dimostrazione di un processo di ibridazione, allora il fondamentalismo islamico avrà già vinto la prima partita del confronto.
E l'avrà vinta, a maggior ragione, se non riusciamo a intercettare o annulliamo gli spazi di discussione interna al mondo islamico attuale. Lo dimostrano le risposte del Mufti di Siria - presentato come moderato nell'intervista uscita lunedì sul “Corriere della Sera” - che alla domanda su chi e che cosa abbiano alimentato i toni della protesta, risponde letteralmente “Sono rimasto stupefatto dall'atteggiamento di Al Jazeera, forse condizionato dagli Stati Uniti. Rilancia continuamente la crisi, la tiene da tre giorni come prima notizia e in questo modo la acuisce. Lo stesso vale per il New York Times: sembra quasi che una parte dei media internazionali facciano di tutto per impedire il dialogo. C'è un complotto ebraico e protestante contro l'intesa cattolicesimo-islam”. Questa risposta ha molte facce. Nessuna è rassicurante.
Non rassicura la spiegazione complottista della crisi e non è tranquillizzante il messaggio sull'intesa cattolicesimo-islam perché si fonda su un ammiccamento che tra gerarchie. L'effetto è l'eliminazione delle società civili, degli intellettuali liberi, comunque delle voci di mondi culturali che non sono un corpo unico.
La moderazione che si afferma nel riconoscere che non c'è intenzione da parte di Benedetto XVI di andare allo scontro, di fatto poi denuncia una rigidità che indica sostanzialmente il restringimento dei margini sia di un islam moderato, sia di un islam laico. In ogni caso la necessità per entrambi, al fine di rilegittimarsi di cavalcare la protesta indirizzandola ancora verso una spiegazione che non aiuta il confronto, ma innalza il tasso di autovittimizzazione.
Ciò significa che comunque si esca da questa crisi di potenza, gli spazi e i margini di dialogo con il mondo islamico moderato si sono in questi giorni ristretti e che un conflitto tra cristiani e islamici è destinato a salire. Del resto è sufficiente muovere lo sguardo dall'alto del conflitto teologico agli incerti territori della convivenza. Quando il primo ministro dell'ANP, Ismail Haniye, esponente di punta di Hamas, invita a non colpire i cristiani di Palestina, dice una situazione già in atto da mesi e che da giovedì si è ulteriormente aggravata. Di fatto sottolinea la rottura di un fronte interno che durava dall'esodo del 1948: nel futuro della Palestina, a prescindere da quanto sarà esteso lo Stato che verrà, gli spazi per la coabitazione interreligiosa sono a rischio. Un messaggio che probabilmente che ha tra i suoi destinatari anche l'incerto mosaico libanese.
20.09.06 11:05 - sezione
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