Democratici si diventa
di Gabriele Polo
Dai tempi di Pericle è la parola politica più usata, abusata, discussa e riaggiornata. Oggi - almeno in Occidente - è una dichiarazione identitaria da cui non si può prescindere se si vuol aver diritto di parola, talmente decisiva da rischiare di non voler dire nulla. E' la democrazia, principio e fine della vita politica. Meno, molto meno, è una pratica reale, se la si coniuga - come dovrebbe essere - col termine «partecipazione». Visto che - come ormai documentano ponderosi studi - il partecipare ogni quattro o cinque anni alle tornate elettorali non garantisce nemmeno più la reale rappresentatività della democrazia delegata per delle società in cui la ricchezza diventa fonte del consenso e il controllo sui mezzi d'informazione il suo tramite. Come insegna la nostrana parabola del berlusconismo.
Che «siamo tutti democratici», quindi, non vuol dire nulla. In discussione è la qualità della nostra democrazia, che negli ultimi anni ha perso vistosamente colpi. E anche la nascita di un Partito democratico - che nella Grecia di Pericle significava qualcosa di preciso - non è un evento che di per sé innalza i nostri cuori. Soprattutto se di questo futuro partito non sappiamo nulla se non le minuziose cronache che documentano la ricerca di affannosi equilibri tra i gruppi dirigenti e le burocrazie che lo promuovono (o l'ostacolano). Conosciamo tutto delle pressioni di Prodi, delle paure di Fassino, del lavoro «di fondo» di Marini, del disagio di Mussi. Nulla, o quasi, su cosa sarà davvero questo partito, quali valori affermi, come si giungerà a costruirlo. Quasi che la sua necessità risponda alle leggi fisiche dell'inerzia più che a un progetto politico. Non solo l'inerzia che deriva dalla «spinta» organizzativa, ma anche quella che considera il mondo non più modificabile, al massimo da gestire.
Forse oggi, da Orvieto, ci smentiranno. Magari i tre illustri professori cui sono affidate le relazioni introduttive ci diranno che «le ragioni del nuovo partito» (Pietro Scoppola) sono la libertà e l'eguaglianza; che il suo «profilo programmatico» (Roberto Gualtieri) è quello dell'alternativa alle ingiustizie del mercato; che «la sua forma» (Salvatore Vassallo) prevederà una rete di partecipazione democratica mai vista prima. Forse.
Per ora quel che sappiamo è che la creatura politica che dovrebbe assemblare Margherita, Ds e - forse - il trio Pannella-Boselli-Di Pietro si annuncia centrista (politicamente), moderata (socialmente), verticista (organizzativamente). E allora la nascita del Partito democratico avrà pure un suo aspetto positivo nel chiarire il quadro politico, ma non aiuterà la partecipazione democratica né, tantomeno, la costruzione di un'alternativa sociale. Non è una questione d'identità «tradite», di radici spezzate cui aggrapparsi. E' un problema di pratiche: agitare la parola democrazia senza darle un senso diverso dall'amministrazione più o meno efficiente dell'esistente potrà anche servire per costruzioni elettorali, ma allontana ulteriormente le persone in carne e ossa dalla vita pubblica: quali passioni può suscitare la gestione manageriale del presente? Se da Orvieto parte questa strada, ciascuno può scegliere se imboccarla o meno. I sensi unici sono sempre un po' costrittivi.
E' da tempo che penso che nell'attuale sistema politico/elettorale (bipolare) sia indispensabile creare strumenti per mediare i diversi interessi interessi, armonizzando, idee, soluzioni, analisi... Un partito politico è per definizione questo strumento... Non farei questioni nominalistiche (questo aspetto riguarda più questioni di appeal pubblicitario e di mediazione con le diverse tradizioni di origine), la sinistra ha tutto da guadagnare se il "giochino" funziona, ovvero perdere il vizio di aver ragione in una cabina telefonica (ce ne sono ancora?)... Siamo molto distanti dalla Polis, e forse converrebbe interrogarci su che cosa è democrazia nel mondo di oggi...