Vedi alla voce Israele
di Paolo Prodi
Credo sia opportuno approfittare di questa pausa del conflitto israelo-palestinese (spero duri ancora quando questo articolo uscirà ma nessuno può esserne sicuro) per una riflessione che superi la cronaca di questa guerra infinita. È inutile riprendere tutta la storia dalla nascita dello Stato d'Israele, dal 1948 sino ad oggi, come inutile è ripetere ancora una volta il rito psicanalitico collettivo di noi europei basato sul senso di colpa che abbiamo dopo la shoah, al quale si è sovrapposto con il passare degli anni un nuovo senso di colpa nei riguardi del popolo palestinese cacciato dalla sua terra.
All'antico genocidio si sono sovrapposte le immagini delle repressioni di Shabra el Shatila e quelle della miseria di un popolo intero.
Mi sembra molto spiegabile che queste contorsioni abbiano colpito soprattutto il popolo della sinistra. Nei decenni in cui Israele è stato l'avamposto dell'occidente, in un medio oriente percorso dai fremiti dell'anticolonialismo e il popolo palestinese è divenuto l'icona dei popoli del terzo mondo sfruttati e poveri, è stato fatale che crescesse un sentimento anti-Israele che a mio avviso non aveva e non ha nulla a che fare con l'antisemitismo tradizionale.
Dopo la fine della guerra fredda e il disfacimento dei due blocchi tutto il quadro è divenuto ancora più complesso: da una parte, con la prima guerra del Golfo, Israele è divenuto un problema per tutta la strategia americana nei riguardi del Medio Oriente e dei paesi arabi produttori di petrolio. Dall'altra l'estremismo islamista ha cercato di coinvolgere i palestinesi proprio per la loro debolezza all'interno di una spirale di violenza e di panterrorismo per tenere tutta la regione in uno stato continuo di convulsioni. Così Israele è diventato l'epicentro di un sistema sussultorio di terremoti geopolitici che hanno prodotto e producono eruzioni periodiche in tutta la regione. In questo quadro sono nati gli incontri di Camp David ed è stata definita la road map , il percorso per raggiungere la pace che si è tentato di attuare sino ad ora, con il principio del riconoscimento reciproco dei due Stati e la restituzione, almeno parziale, dei territori che Israele aveva occupato con le guerre dei decenni precedenti.
Oggi dobbiamo ancora continuare a puntare in questa direzione: mi sembra che la politica estera italiana si muova nella giusta direzione e che l'Europa stia anch'essa uscendo almeno parzialmente dalla sua paralisi e dai suoi sensi di colpa approfittando dei nuovi spazi che si aprono con l'apertura degli Usa al multilateranismo.
Ma sappiamo che questo non è sufficiente. Ed è a questo punto che si apre la proposta di Marco Pannella di inglobare Israele in Europa e imboccare quindi una nuova via che ne garantisca la permanenza e la sicurezza in modo stabile. In questi termini, nella visione di una geopolitica tradizionale questa proposta appare utopica è irrealistica, ma credo che sia molto importante perché ci costringe forse per la prima volta ad uscire tutti, noi ed Israele, dal nostro passato e a guardare al futuro. Pensare infatti ad un semplice inglobamento tipo «allargamento» è una semplice follia: bisognerebbe certo comprendere in questa operazione anche lo Stato palestinese e introdurre quindi forse ulteriori motivi di turbamento. Per essere presa sul serio questa proposta deve mettere in discussione lo stesso progetto costituzionale dell' Europa unita e la nostra democrazia partendo da una riflessione sulla natura costituzionale dello Stato di Israele.
Lo Stato d'Israele non ha, come è noto, una carta costituzionale: non ha una costituzione scritta e nemmeno una costituzione non scritta derivante da una storia secolare, come quella inglese dalla Magna Charta del 1215 in poi: non ha una costituzione scritta, nonostante essa sia in progetto sin dal 1948 e se ne discuta ancora presso l'apposita commissione «for the Constitution, Law and Justice» della Knesset, perché non si è potuta superare la contraddizione fondamentale già evidente molto prima della fondazione dello stato, sin dai primi progetti dei movimenti sionistici, sul principio di appartenenza e di cittadinanza. L'ethos fondamentale è quello di uno Stato «ebraico e democratico»: ma può essere democratico uno Stato basato sull'appartenenza religiosa? Questi valori sono rimasti sempre in tensione e non solo tra la maggioranza ebraica e le minoranze arabe (ancora oggi il 20% della popolazione all'interno dei confini pre-1967 è di minoranza araba) ma anche all'interno della stessa maggioranza ebraica.
La mancata definizione dei criteri di appartenenza e di cittadinanza e la persistenza di due legislazioni diverse, quella laica e quella religiosa-rabbinica (dalla quale ad esempio dipendono tutte le norme relative al matrimonio e al divorzio) provocano conflitti e tensioni continue in una società che diviene sempre più secolarizzata secondo lo schema di tutto il mondo occidentale. Sino ad ora la compattezza dello Stato d'Israele è stata garantita, oltre che dalla saggezza di una Corte costituzionale - che ogni giorno difende i diritti umani universali, che ha saputo mediare in questi ormai sessanta anni i conflitti più forti -, proprio dalla necessità di difesa della sopravvivenza statale nei confronti di un ambiente totalmente ostile: Israele è paradossalmente unita dal fatto di essere continuamente sotto attacco ( forse con qualche analogia storia con la storia dei ghetti ebraici che hanno garantito nei secoli passati il mantenimento di un'identità dolorosa che si sarebbe persa con l'assimilazione).
Questa situazione non è un fatto di Israele ma anche un fatto nostro: in esso si gioca non soltanto la sopravvivenza dello stato d'Israele e la sua appartenenza all'Occidente ma anche la sopravvivenza delle stesse libertà costituzionali dell'Occidente intero. Se infatti sino a qualche tempo fa era possibile concepire Israele come un'anomalia in un quadro di democrazie consolidate e stabili poste a base di stati sovrani e compatti, con qualche problema ( anche tragico, ma risolvibile) di minoranze oppresse, oggi questo è totalmente modificato nel quadro della crisi del potere sovrano degli Stati occodentali e dell'affermarsi prepotente dei fondamentalismi come tentativo di costruzione di nuove identità collettive che superino quella classica della nazione: in questo quadro il caso di Israele cessa di essere un fenomeno in qualche modo di retroguardia, un residuo del passato, e si trasforma invece nell’anticipazione di un futuro che presto o tardi è destinato ad avvolgerci tutti.
Le considerazioni geopolitiche correnti su Israele appaiono quindi generalmente miopi non tanto per il persistere di tendenze antisemite ma in quanto prive della prospettiva della sua storia costituzionale. Questa miopia ostacola anche la comprensione dei nostri problemi: se la sovranità statale è in frantumi in tutto l'Occidente (pur essendo lo Stato come sistema sociale ed economico destinato a durare a lungo), la ridefinizione delle identità collettive deve essere ricondotta ad altre dimensioni che non siano quelle classiche e statiche del territorio, popolazione, potere statale, a dimensioni più vicine a quelle che caratterizzano la vita dello stato israeliano.
In realtà Israele appare ora la punta più avanzata dell'esperienza politica occidentale, verso le nuove frontiere non territoriali del futuro: da una parte rappresenta il laboratorio del costituzionalismo come processo e dall'altra mette in rilievo nel proprio esperimento le contraddizioni interne che da noi sono ancora in incubazione. Dobbiamo abituarci forse a studiare lo Stato sionista non tanto per il suo passato quanto per l'anticipazione di un futuro che può essere realtà diffusa nei territori dell'area islamica o cristiana e che può avere sviluppi in direzioni opposte.
La strada può essere davvero quella di inserire lo Stato d'Israele e la Palestina nel quadro costituzionale europeo, ma questa inserzione non può consistere in una semplice annessione (che del resto in questa situazione sarebbe impossibile) bensì implica un ripensamento della nostra democrazia e dei nostri diritti costituzionali. Il problema d'Israele è ormai un nostro problema, un problema di tutti noi: se vogliamo evitare la barbarie dei fondamentalismi e le nuove guerre di religione o di civiltà dobbiamo re-inventare un'appartenenza multipla, riscoprire sulla base dell'esperienza ebraico-cristiana, la secolarizzazione della politica nei nuovi panorami mondiali.
Non saprei. Ogni tanto leggo gli editoriali di Fulvio Grimaldi e mi dico che il mondo è bello perché vario e che mi fa piacere esista Internet.
PS - Israele in Europa? Prematuro.
"Israele in Europa? Prematuro"
Sono d'accordo. Ma sempre meglio Israele che la Turchia
Mah, la Turchia è legata all'Europa solo da questioni di costo del lavoro: dei turchi in quanto tali credo che a nessuno importi più che dei lussemburghesi. Israele, dopo il Libano e tante altre cose, direi che è assolutamente prematuro parlare anche lontanamente di portarla in Europa.
Israele non è da portare in Europa perchè non ne fa parte, geograficamente e storicamente. Ma sicuramente, all'Europa ci si avvicina più Israele che la Turchia.
Sull'articolo di Prodi non commento ora. Sulla Turchia guardavo giusto ieri un po' di prezzi: muovendosi anche all'ultimo momento si trovano biglietti a/r per Istanbul a 200 euro e qualcosa. Consiglio caldamente di farsi un giro, per capire immediatamente, al tatto e alla vista, che per l'Europa ma non solo non si tratta esclusivamente di un serbatoio di forza lavoro o di un nuovo mercato da integrare (per quanto questi motivi effettivamente pesino).
Anche tu, Reza, ti farà bene.
Antonio, lo so bene, in Turchia ci sono stato l'anno scorso, ho visto anche Istanbul.
E sicuramente una città molto bella, un posto interessante da visitare, con il tipico fascino della città mediorientale. Ed è anche spettacolare il panorama che ho ammirato dalla nave, al tramonto, dello stretto del Bosforo.
Ma con l'Europa ha ben poco a che fare. Una città nella quale i principali monumenti sono moschee, una città nella quale c'è un Gran Bazar lungo un paio di kilometri con venditori di tappeti ovunque, una nazione a netta maggioranza islamica, una nazione storicamente nemica dell'Europa, una nazione in cui non sono assicurati tutti i diritti umani e civili, una nazione dove chi parla del genocidio degli armeni rischia il carcere, una nazione dove vige la pena di morte, applicata anche per casi discutibili, una nazione dove il terrorismo, di matrice islamica ma non solo, è pericoloso forse più che in qualsiasi altra parte del mondo, direi che con l'Europa ha ben poco a che fare.
Rheza, francamente tra un bazar ricco di tappeti colorati e un centro comerciale ricco di telefonini preferisco il bazar. E siccome Israele probabilmente privilegia i centri commerciali, essendo esso stato "un avamposto delle democrazie occidentali", la Turchia, mi pare più interessante proprio perché è diversa. Non sento la mancanza di una ennesima pseudo-democrazia al servizio della Nestlè, della General Electric, della Exxon, della BP, della Shell, di Halliburton, di Morgna&Stanley e della cupola dell'Aspen o di Dick Cheney. Per quanto mi riguarda Pannella può pure fare l'ennesimo digiuno, non cambio idea di un millimetro. E poi, diciamolo, l'Islam è la culla dell'harem: non sarà difficile adattarsi ;-)
"la Turchia, mi pare più interessante proprio perché è diversa"
Ognuno la pensa come gli pare. Io personalmente ritengo che proprio perchè è diversa è incompatibile con l'Europa, ed è anche molto, molto pericolosa.
"E poi, diciamolo, l'Islam è la culla dell'harem"
Che intendi dire?
Come, "che intendi dire"?
Israele viola molte più risoluzioni ONU e diritti umanitari della Turchia.
Solo questo.
Infatti, nessuno qui credo sia a favore di Israele nella UE. Anche se forse per motivi diversi.
A mio modesto parere, però Italico, ti sbagli, la Turchia è molto peggio, ma soprattutto, è molto meno europea da un punto di vista storico-culturale (nonchè banalmente geografico) di Israele.
Non è concepibile in Europa un paese a maggioranza islamica.
Se è per questo non è concepibile una UE come quella america-dipendente di oggi... a quel punto sarebbe piu azzeccata Israele, mentre per me se entrasse la Turchia in Europa: questo significherebbe la svolta vera e propria per un'Europa Vera, per un'Europa nuova.
r., per quanto capisco personalmente, se tutti ragionassero come te non esisterebbe elite di parte, guerre ideologiche o "modernismo sfrenato" (i Cittadini Occidentali sono e si riveleranno un giorno, credo io, piu di tutti i BIG: "cornuti e mazziati").
PS: r. felice la scontata battuta che fai, degna di ogni vero maschio, ma permettimi di precisare che gli HAREM sono lontani anni luce dall'AMORE monogamico (ogni Madre di Famiglia potrebbe risponderti con piu esattezza; quelle evidentemente "meno moderne", forse, ma sicuramente con molti piu Valori da comunicare...)
Se potessi, di questo piuttosto mi vanterei
Mi permetto di aggiungere che quando l'Oriente e l'Occidente si unificassero, cio solo: adempierebbe la propria Identita storico-culturale-religioso-politica
Allargare eccessivamente l'europa rischia di annacquarla, nel senso che gli stati tendono a rimanere e a mantenere tutte le loro prerogative. Sarei felice se trai pochi paesi originari riuscissero a formare uno stato unico e si potesse, che so, votare x zapatero o blair invece che per quel rudere di prodi.
Quanto ad isaraele: sono sicuramente più europei dei turchi (che però ormai è giusto accettare). L'idea è buona, anche perchè potrebbe aiutare a risolvere la crisi del medio-oriente.
meglio prodi di quella testa di cazzo di blair
Mah, l'ostacolo che si trova di fronte il soggetto politico europeo è appunto politico, non identitario. La costituzione, che al pari degli altri passaggi istitutivi, ha eluso la questione, bordeggiando invece il secondo versante, è stata rispedita al mittente. Certo lo è stata da quei supponenti altezzosi dei francesi, ma un motivo c'è: gli europei già sanno chi sono, intuitivamente, e sanno per esserne il prodotto quali vicissitudini ne hanno delineato il profilo e tratteggiato i caratteri comuni, ma non è cosa che possa facilmente essere esemplificata per iscritto e stabilita una volta per tutte con un atto ufficiale.
In primo luogo perché i contorni geografici e concettuali di questa entità sono tutt'altro che demarcati. A est e a sud-est il continente si apre a una via di fuga e ad un'alterità rispetto alla quale nei secoli si è definita, ma senza mai risolversi completamente. Anche senza andare al medio-oriente, i russi sono europei o asiatici?
In secondo luogo, c'è una lingua che ci accomuna? Sì e no. Dipende da quali nazioni si prendono in considerazione e da con quali altre macro-aree del mondo le si confronta.
Non è una questione semplice l'identità europea e scegliere la via di una sua enunciazione chiara per stabilire chi può essere ammesso o meno nei confini del superstato rischia di auto-contraddirsi facilmente. Insomma se uno prende la lista dei paesi associati e in via di adesione e la analizza per bene, vede che non è così evidente un'estraneità della Turchia, rispetto al complesso degli elementi che i nuovi paesi andranno ad aggiungere al concetto di Europa.
Poi d'accordo la Turchia suscita particolari dilemmi, perché nel suo piccolo (nel suo grande) riassume in sé tutte queste ambivalenze continentali: è oblunga, estesa, affacciata sull'Europa e con i confini che si perdono nelle profondità dell'oriente, ed è allo stesso tempo così simile e così diversa.
Per questo dicevo che è un paese che va visto, perché entrarci in contatto provoca un'immediata e spontanea messa in discussione di noi stessi e dell'idea che ci siamo fatti su chi siamo. Rendersi conto che il bagno turco, percepito come la quintessenza dell'agio orientale, non è altri che l'uso delle terme romane, adottato e preso in custodia, conservato e ritramandato a noi che l'abbiamo perso per strada, è una di quelle rivelazioni che disorientano. E Istanbul abbonda di questi segnali.
Certo poi a seconda della strada che imbocchi puoi trovarti d'improvviso ad Alessandria d'Egitto o a Beirut, ma anche a Madrid, o in Svezia (le tipiche costruzioni in legno hanno un sapore molto nordico). Il gioco a inseguire i rimandi di un'appartenenza europea o meno da risultati molto meno scontati di quanto ci si aspetterebbe.
Il dilemma europeo non è affrontabile in astratto e per le vie identitarie, ma è tutto politico. C'è una struttura amministrativa in crescita, priva di una guida e di una direzione. Il numero dei paesi aderenti continua ad aumentare, moltiplicando la complessità dei meccanismi decisionali, senza che sia stato stabilito l'asse portante. Se la si esaminasse come fosse una questione urbanistico e di architettura, sarebbe immediatamente evidente che c'è un problema strutturale di progettazione.
Il problema non è la Turchia che imbastardisce il pedegree e sfuma i confini certi dell'Europa cristiana - non più della Lituania o della Romania -, il problema sono i paesi fondatori che ancora adesso esitano ad assumere una linea comune effettiva nella gestione dei propri destini.
Il problema sono i francesi che blindano le aziende energetiche nazionali impedendo l'elaborazione di una strategia comune, o gli spagnoli che si parano dalle scalate tedesche, per poi venire un po' tutti a fare shopping in Italia. Il punto è l'illusione di potere ancora fare da soli, di poter lavare i panni in casa, di perseguire le proprie piccole grandeur ai danni dei vicini.
Che Israele e soprattutto i territori occupati siano un laboratorio di sperimentazione comunque è incontestabile: di nuovi ordigni e mezzi di repressione della vita.
http://www.rainews24.rai.it/ran24/inchieste/10102006_gaza.asp
Anche se rimango molto d'accordo con l'affermazione che sia un problema 'nostro' a cui non possiamo dichiararci estranei.