Integrazione e scuola di “confine”
La polemica sulla scuola araba di Milano ripropone il tema dell'accettabilità o meno non tanto di una scuola, ma soprattutto di una luogo culturale e formativo per gli islamici in Italia. L'apertura della scuola, avvenuta lunedì senza avere i permessi definitivi, fornisce argomenti di carattere formale a chi vi intravede comunque un a realtà al limite della legalità, anzi la interpreta come un fatto di illegalità. Ma è anche il risultato di un profilo che pensa che accantonando i problemi questi nel tempo si sistemino da soli. Non sarà così , almeno questa volta, anche perché il conflitto politico ha assunto immediatamente i toni dello scontro simbolico e il Ministro della Pubblica istruzione Giuseppe Fioroni è intervenuto con il suo stop.
Il simbolo sta nello strappo (vero) effettuato rispetto alle norme vigenti e nel fatto che su quel filo tra la strada e la scuola si gioca il confine del “proprio paese”, meglio del “paese proprio”. Insomma il conflitto e lo scontro da parte della Lega è sul suo tema canonico: “Padroni in casa nostra”. Lo stesso in un qualche modo è indicato nelle parole dell'assessore alla Salute del comune di Milano Carla de Albertis che chiede controlli sulla didattica perché quella scuola “non diventi una scuola per piccoli terroristi”. Tutto questo si potrebbe dire fa parte di un normale conflitto relativamente a valori-simbolo su cui ogni agenzia politica tenta di portare a casa un “utile”. E, tuttavia, sarebbe sbagliato interpretare l'intera questione fermandosi a questo livello “utilitarista”.
Su questa idea di confine da tutelare e di violazione del proprio territorio si riapre di fatto la questione sulla multiculturalità. Ovvero in che forma e in che modi si debba intendere il confronto e possibilmente la costruzione di una piattaforma culturale comune in una società costituita da diverse appartenenze.
Quando il Ministro Paolo Ferrero (su “Repubblica” di ieri) suggerisce l'idea della integrazione come piattaforma musicale come il blues e il jazz (“ciascuno porta le proprie sonorità, si confronta con gli altri e alla fine dà vita a una canzone nuova, figlia delle radici culturali di ognuno”) usa un'immagine suggestiva, certamente, ma si dimentica di osservare un dato costituente: perché si dia musica e a partire da sound diversi occorre adottare la stessa scala musicale.
In questo caso significa porre un problema di inclusione e non solo di integrazione. E' difficile che questo si produca solo puntando alla costruzione di identità culturali costituite da una sola caratteristica In questo senso forse aprire la scuola è anche un modo di di porre l'urgenza del problema (un po' come il muro di Padova) , ma poi si tratta di pensare oltre e di non dare luogo a un nuovo ghetto monoidentitario.
Come sottolinea Ian Buruma sul “Correre della sera” di lunedì scorso la questione ha un suo punto focale nella capacità che le nostre società reali hanno di assimilare realmente quelle fasce di nuova immigrazione o di immigrati di seconda generazione. Uomini e donne che hanno esperimentato le chances di benessere, o comunque di vita decente che la società occidentale concreta in cui si trovano a vivere offre loro, salvo poi verificare che, al di là del benessere materiale, un limite difficilmente valicabile risulta essere quello della cittadinanza, della accettazione di sé, della propria persona, della propria storia in quelle stesse società che si autodenominano come aperte.
Secondo Buruma dunque ciò che si colloca al centro della riflessione sono le incongruenze, i passaggi non fatti tra una dichiarazione di principio e l'incapacità - più spesso la non volontà - di addivenire davvero a un processo di integrazione che non sia solo di benessere materiale, ma anche di riscrittura di codici culturali condivisi.
Questo è meno consolante di chi invoca il conflitto di civiltà, soprattutto è meno orgoglioso. Ma non è meno intransigente. A fondamento dei processi di integrazione, sta l'accettazione di valori di principio (la questione della parità uomo/donna rientra tra questi). Ma poi si tratta anche di comporre un codice culturale che prevede il superamento delle identità singolari. Non è un progetto semplice, né è definibile a tavolino. Noi dobbiamo avere la consapevolezza che questo passaggio sarà lungo e riguarderà almeno una generazione e non potrà farsi senza un processo di riflessione che attraversa trasversalmente i soggetti culturali coinvolti Può darsi che il tempo sia tiranno e che non ci sia molto tempo. Ma il problema non si risolverà solo accelerando i processi e creando delle realtà artificiali.
11.10.06 14:33 - sezione
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