Informazione, se la libertà diventa precaria
di Nicola Tranfaglia
Povero giornalismo in Italia. I lettori si saranno accorti che nelle ultime settimane si sono ripetuti scioperi che hanno privato gli italiani per due giorni di seguito, a volte in coincidenza con avvenimenti politici o di altro genere che sarebbe stato interessante seguire attraverso i giornali, la radio o la televisione.
Colpa dei giornalisti che chiedono nella loro piattaforma contrattuale la luna o grandi aumenti di stipendio e di condizione professionale? Direi proprio di no.
Leggendo quel documento, quella piattaforma, mi è parso che il rifiuto costante da parte degli editori di riaprire le trattative per arrivare a un accordo nasca da un equivoco che caratterizza la nostra editoria piuttosto che da un inesistente massimalismo di chi lavora nei giornali e nelle stazioni radiotelevisive.
Da parte degli editori sembra esserci l’inseguimento a ogni costo di una speranza che il numero dei giornalisti cresca sempre di più a detrimento della preparazione professionale e della cultura di chi lavora nell’informazione proprio nel momento in cui viceversa da parte delle organizzazioni professionali e dei sindacati ci si rende conto che, per realizzare un giornalismo sempre più autonomo dalla politica e in grado di realizzare i principi costituzionali, è necessario indicare un percorso alla professione, una laurea almeno triennale, la costruzione di scuole di giornalismo legate alle università, una conoscenza del mondo contemporaneo e alle categorie culturali più aggiornate. Non a caso gli editori hanno condotto in questi anni una battaglia assai aspra per tenere le mani libere in fatto di assunzione dei praticanti e opporsi ai master universitari che sostituiscono il praticantato con due anni di frequenza dei master e di studio legato alla pratica esterna alle aziende. Ma si tratta di una strategia miope e inadeguata alle esigenze del giornalismo contemporaneo.
Non è infatti un caso che il nostra Paese sia caratterizzato da una diffusione sempre maggiore dell’abusivismo al punto che, in molti casi, accade che gli abusivi tengano in piedi quasi da soli intere testate e abbondino soprattutto all’interno di grandi catene di fogli finanziati soltanto dalla pubblicità e non dalla vendita dei giornali. Lo stesso avviene all’interno di stazioni radiofoniche o televisive che da molti anni sopravvivono per miracolo e non chiudono solo grazie allo sfruttamento massiccio di persone che non sono professionisti e che, rimanendo in quelle emittenti, non lo diventeranno mai.
Naturalmente negli scioperi che si succedono accade sempre di incontrare nel mondo della carta stampata due testate che pure non possono lamentarsi di non avere lettori o di ricevere dalla legge vigente sull’editoria risorse assai robuste: sto parlando del il Giornale di Belpietro e di Libero di Feltri che non partecipano alle agitazioni della categoria e non soffrono, a quanto pare, del pertinace rifiuto da parte degli editori di riaprire le trattative. Non c’è da stupirsi giacché l’atteggiamento della Federazione degli Editori sta diventando in questa vertenza l’espressione di una strategia di muro contro muro che vuol mortificare i giornalisti e condurre al declino di una categoria che in passato ha espresso notevoli ingegni e personalità che hanno condotto battagli decisive per le libertà politiche e culturali del Paese. Penso agli inizi del novecento quando Luigi Frassati dirigeva la Stampa e Luigi Alberini dirigeva il Corriere della Sera ma anche ad esempi recenti come Eugenio Scalfari che ha fondato la Repubblica. Ma gli esempi positivi del ruolo del giornalismo anche negli anni della Repubblica potrebbero ancora moltiplicarsi, se parlassimo anche di commentatori e di inviati speciali degli ultimi decenni.
Oggi sembra che tutto ciò appartenga a un passato che non può più ritornare. Oggi lo scontro è aperto e si svolge tra editori che vogliono esecutori a basso livello culturale e giornalisti che cercano di rivendicare al contrario la propria professionalità e la loro difesa da un utilizzo delle nuove generazioni.
Non si può dunque assistere silenziosi alla battaglia in corso come se essa riguardasse soltanto una delle tante categorie di lavoratori (troppi dei quali precari per troppo tempo) e non riguardasse invece tutti quegli italiani che difendono la libertà di pensiero e di espressione (articolo 21 della Costituzione, ancora vigente).
Se dalla carta stampata si passa alla Rai, le ultime notizie consentono di verificare come nulla o quasi stia cambiando nell’azienda di Stato dal punto di vista dell’informazione. La decisione del direttore generale Cappon e del presidente Petruccioli, approvata dal Consiglio di amministrazione, di ridurre da quattro a tre le serate settimanali della trasmissione Porta a Porta condotta da Bruno Vespa, segnalatosi nella scorsa legislatura come il campione di Silvio Berlusconi di fronte al pubblico televisivo, ha scatenato nel mondo politico come nella commissione di vigilanza proteste notevoli da parte del centrodestra e anche di esponenti del centrosinistra.
Il presidente della commissione di Vigilanza, Mario Landolfi, ha tessuto un elogio per molti aspetti incredibile della imparzialità del giornalista e non ha dato la parola a un deputato di quella commissione che voleva ricordare la propria esperienza negativa di quella trasmissione. In compenso il presidente della Rai Petruccioli ha annunciato quasi soddisfatto che l’ex direttore del Tg1, Clemente Mimun, invitato a scegliere tra la direzione dello Sport e quello delle tribune parlamentari, ha scelto la seconda.
Due casi significativi di una Rai che non cambia e che prosegue sulla strada segnata nell’ultimo decennio berlusconiano in cui vengono premiati quelli che seguono nello stesso tempo la direzione indicata dall’azienda e dal governo del momento e non se ne pentono.
Insomma, abbiamo da una parte editori insensibili a richieste moderate dei giornalisti intesi a migliorare la condizione soprattutto qualitativa dei giornalisti e una Rai lontana dal superare una crisi di trasmissioni e di contenuti informativi che ormai la caratterizzano da non poco tempo.
È difficile allontanarsi da una situazione che fa parlare davvero di povero giornalismo.