La parola proibita
di Gabriele Polo
Ci sarà o no la tassa sui Suv? E il prezzo del cognac salirà alle stelle? Mentre gli italiani si arrovellano attorno a questi angosciosi quesiti che la Finanziaria porta con sé e ascoltano un po' annoiati le parole rassicuranti di Prodi e quelle guerriere di Berlusconi, c'è un cittadino italiano che non ha più parola; meglio, la cui parola è sequestrata. Si chiama Gabriele Torsello, fa il fotoreporter, è stato rapito qualche giorno fa in Afghanistan da una banda imprecisata che minaccia di ucciderlo domani. La costrizione di cui oggi è vittima è il segnale di guardia cui è arrivato il nostro mestiere. Che è fatto di parole.
Nel corso degli ultimi anni, da quando la violenza ha avvolto le relazioni tra gli uomini e le guerre sono diventate la sostanza dei rapporti internazionali, decine di giornalisti, fotografi, videoperatori sono stati uccisi, in campi di battaglia, agguati o sconosciute stanze. Intere zone del pianeta sono state forzatamente abbandonate dai mezzi d'informazione e di esse non sappiamo più nulla. I media - i loro operatori - hanno smesso di essere un tramite della comunicazione e ne sono diventati un fine: da conquistare per trasformarli in megafoni di propagande o da usare come ostaggi di chi combatte. Fino a far diventare i corpi stessi di chi si dedica alla comunicazione un terreno di conquista. Per cambiare la loro parola o proibirla. Fino a ucciderla.
Ci sono tanti modi di negare l'indipendenza dell'informazione: la si può comprare corrompendola o renderla economicamente impraticabile, come accade nel nostro tranquillo Occidente. La si può censurare o sopprimerla come avviene dove nemmeno i soldi valgono la libertà. E ciò succede proprio nell'era in cui la comunicazione è fondamentale per i poteri: l'afghano che usa il giornalista per la sua guerra si muove con la stessa logica del grande editore che licenzia il redattore sgradito.
Ogni giorno siamo bombardati da milioni di notizie che alla fine sembrano essere tutte uguali e contemporaneamente siamo sempre più muti. In questo autismo le poche parole che riescono a superare la cortina dell'omologazione o quella del silenzio hanno il valore di una risorsa preziosa da difendere dall'estinzione: molto più del petrolio, quasi come l'aria e l'acqua. Eppure ci abituiamo facilmente ai giornalisti sequestrati, a quelli minacciati, a quelli uccisi. Non fanno notizia, non ci occupiamo di fare i conti con le cause della loro precarietà - un'occupazione militare come il controllo mafioso di un territorio - al massimo sappiamo metterli sotto scorta o consigliar loro di lasciar perdere, di starsene a casa; in guerra come in «pace». Così, per questa via, togliamo loro la prima fonte della propria indipendenza. Per questo - oltre che per lui e sarebbe più che abbastanza - l'abbandono del sequestro di Gabriele Torsello a evento di terzo piano di cui si occuperà qualche servizio segreto è l'abbandono di un diritto al conoscere, cioè a poter giudicare e - per quanto vale ancora la parola - decidere. Quelle cose che fanno la differenza tra un mondo di cittadini e di uno consumatori. Di notizie, Suv e cognac.
era in cui la comunicazione è fondamentale per i poteri: l'afghano che usa il giornalista per la sua guerra si muove con la stessa logica del grande editore che licenzia il redattore sgradito»
Ma come disse -in un lampo di saggezza- il nostro borja è meglio la pasta con i fagioli della sola pasta. Francamente preferisco il licenziamento del redattore..