La piazza ungherese accusa l’Europa
Quante analogie e quante differenze ci sono tra la piazza di Budapest oggi e quella delle giornate dell’autunno 1956? Sarebbe sbagliato sovrapporre le scene dell’ottobre 1956 con quelle che in queste settimane si stanno consumando sugli stessi luoghi fisici. In quelle scene ci sono delle continuità ma anche delle profonde discontinuità.
Le continuità, prima di tutto. Come allora la rivolta o la protesta si fonda sulla difesa di sé, sulla legittimità di pesare nella politica. E’ una mobilitazione prevalentemente urbana e coinvolge in prima istanza le generazioni giovani. In questo senso è una rivendicazione che parte dagli strati politicamente delusi, prima ancora che socialmente frustrati. Riprendersi in mano la politica, a un livello primitivo e immediato, rimpossessasi del proprio destino, processo comune a tutte le rivolte che si accreditano come la ribellione dello schiavo contro il padrone, è una caratteristica che ci fu allora e c’è ancora cinquant’anni dopo.
Ma qui terminano le analogie. Perché quella rivolta non è un investimento sulla politica o su un ceto politico. E' prima di tutto una mobilitazione che si muove con il linguaggio dell'antipolitica e che rivendica la diffidenza nei confronti della politica. Certo, in Ungheria una giustificazione a questo tipo di protesta si può rintracciare come replica alle parole pronunciate dal Primo ministro socialista Ferenc Gyrcsany, l'uomo politico che non accorgendosi di essere ascoltato, pubblicamente dichiarò circa un mese fa di aver vinto in maniera truffaldina le elezioni politiche che lo avevano confermato al potere. Tuttavia, quello che potrebbe apparire come un dato specifico, non è così distonico rispetto al quadro generale che è operativo in molti altri contesti dell' ex blocco sovietico. Fenomeni di neopopulismo, spesso con un seguito elettorale consistente, talora anche maggioritario, sono presenti in una parte non indifferente dell'elettorato est-europeo. E' così, per esempio, in Polonia, in Bulgaria, in Slovacchia, in Lituania.
In secondo luogo a differenza del ciclo degli anni '50 come in quello degli anni'80, il recupero della politica non avviene in nome di una rivendicazione nazionalistica della propria identità. Certo la retorica dell'identità nazionale ebbe un peso come fondamento dell'opposizione alla presenza sovietica. Ma quella rivendicazione coabitava con l'idea di partecipare a un progetto continentale diverso, ovvero all'Europa.
Il mito politico della costruzione dell'Europa è stato uno delle risorse culturali e motivazionali essenziali all'interno dell' “indimenticabile” 1989 e intorno a quel mito è cresciuta e si è affermata una generazione politica che in molti scenari nazionali (laddove non ha prevalso immediatamente una ipotesi neonazionalistica, come in Slovacchia, dove invece proprio quella fu da subito la scelta politica) ha consentito che si sviluppasse un processo di avvicinamento e poi di integrazione.
Questo processo oggi si è arrestato per due motivi che rinviano alle difficoltà dell'Europa. Il primo riguarda le dinamiche di riforma che hanno attraversato quei paesi. Riforme che hanno stravolto gli assetti sociali, lavorativi, protettivi, previdenziali e che a causa dell'enorme crisi fiscale che si trovavano a gestire ha generato nuove delusioni, nuove povertà contemporaneamente alla nascita di “nuovi ricchi”. L'effetto, ed è qui il secondo motivo, è l'innalzamento del tasso di frustrazione riversato come nel caso della mobilitazione anti-sovietica da un presunto potere occulto, lontano, comunque straniero che protegge preliminarmente altri interessi, comunque non i propri. Questo aspetto si combina con il secondo, ovvero con il riconoscimento di propri diritti che risulterebbero di nuovo azzerati o penalizzati dalle politiche centraliste dei Bruxelles. L'Europa così da risorsa, da possibilità per garantire una propria ripresa, si trasforma in handicap, convinzione accentuata anche dalla bocciatura (maggio 2005) del progetto di carta costituzionale europea.
Da allora i processi di neonazionalismo sono di nuovo in crescita in tutti i contesti. Questa volta in nome di una “rivoluzione tradita” o delle attese deluse dopo la liberazione dell'89. Un processo che avviene all'insegna di una rivendicazione nazionalistica e che chiama in causa anche la identità politica dell'Unione europea e la sua costruzione. Nella riscoperta identitaria e neonazionalista delle realtà politiche dell'est Europa, il problema non è rivendicare una identità percepita debole, ma proporla come contratto di ingresso nell'Unione europea, un attore che stenta ad essere un gigante economico, e che ancora è un nano politico. Dentro a questo deficit di politica si ripresentano sullo scenario i particolarismi come rivendicazione di uno spazio e di un ruolo.
30.10.06 00:08 - sezione
parole