«Mafia, al comando è tornato il Principe»
Scarpinato, pm a Palermo, analizza la «nuova» struttura: «Le nuove vicende coinvolgono la borghesia
Medici, avvocati, imprenditori, impiegati, professionisti con ruoli di vertice nell’organizzazione»
di Saverio Lodato
DOPO interviste all’Unità del neo procuratore di Palermo, Francesco Messineo, e del suo aggiunto Sergio Lari, torniamo a parlare di mafia con Roberto Scarpinato, procuratore aggiunto di Palermo, magistrato che ha attraversato parecchie stagioni della
lotta alla mafia.
Procuratore Scarpinato, Francesco Messineo, nuovo capo dell’ufficio, ha dichiarato che Cosa Nostra dopo i colpi subiti si sta riconvertendo, quasi esclusivamente alle estorsioni e all’intervento negli appalti pubblici. Il suo collega Sergio Lari dipinge il quadro di una mafia indebolita nelle sue strutture di vertice pur se fortemente insediata sul territorio. Lei che ne pensa?
«Concordo con le analisi dei miei colleghi. La struttura militare di Cosa Nostra è stata ridimensionata, tuttavia, penso che la novità più importante degli ultimi anni sia il “ritorno del principe”. Mi spiego. La mafia è sempre stato un fenomeno interclassista. Ne fanno parte uomini del popolo, di piccola e media borghesia, uomini ai vertici della piramide sociale. Ciascun comparto sociale gestisce i propri affari utilizzando metodologie diverse. Quelli dei piani bassi, i componenti della cosiddetta mafia militare, spadroneggiano sul territorio utilizzando il repertorio classico della violenza per drenare risorse con estorsioni e grassazioni di ogni tipo».
Quelli dei piani alti?
«Signoreggiano a volte nelle istituzioni e di regola non hanno alcun bisogno di far ricorso alla violenza perché grazie al potere sociale di cui dispongono e a relazioni di rango, sono in grado di gestire affari molto lucrosi e di drenare gran parte delle risorse pubbliche con metodi illeciti, ma incruenti. A volte tuttavia accade che incontrino ostacoli che non possono superare in modo incruento. A quel punto i piani alti si rivolgono agli specialisti della violenza, che occupano i piani bassi, per fare il lavoro sporco. In questi casi l’omicidio è una estrema ratio. Come usano dire “Dio sa che è lui che ha voluto farsi ammazzare e non ha voluto ascoltare i consigli degli amici”. Così sono stati consumati gran parte degli omicidi politici mafiosi: da quello, a fine ‘800, di Emanuele Notarbartolo, direttore generale del Banco di Sicilia, a quello di Piersanti Mattarella, presidente della Regione Siciliana, a quello del consigliere istruttore Rocco Chinnici negli anni ‘80. Come è stato accertato nei processi, questi delitti sono maturati in interni borghesi ed eseguiti dai soliti “brutti sporchi e cattivi” che la vulgata mediatica ed il sapere ufficiale rappresentano come l'unico volto della mafia».
Ma a quelli dei piani bassi, che ne viene?
«Si rivolgono ai piani superiori per tutte le loro necessità: da autorevoli interventi per aggiustare processi, alla rimozione di personaggi scomodi, alle richieste di partecipare alla spartizione della torta. Insomma: i vari piani operano ciascuno con proprie sfere di influenza, entrando in sinergia quando si verificano convergenze di intereressi o se occorre mettere in campo le risorse del potere militare o di quello politico. La miscela micidiale tra questi due poteri costituisce l'unicum del sistema di potere mafioso, il segreto della sua forza, del suo perdurare nel tempo attraversando in modo camaleontico tutte le stagioni politiche».
Ma all’inizio lei parlava di «ritorno del principe»? Quali novità rispetto al passato?
«Vede, sino a inizio anni Ottanta, ciascuno segmento sapeva stare al suo posto. Nessuno pretendeva di esercitare una egemonia. Gaetano Badalamenti storico esponente della mafia tradizionale sintetizzava questo equilibrio con la massima: “Non possiamo fare la guerra allo Stato”; per Stato lui intendeva la classe dirigente del paese. Nel corso degli anni Ottanta e sino agli inizi degli anni Novanta, i corleonesi, divenuti capi assoluti della struttura militare ed arricchitisi enormemente con il traffico internazionale della droga, aprono una parentesi “patologica”, pretendendo di esercitare una egemonia. Quelli sono stati gli anni in cui “il principe” - cioè i piani alti - ha dovuto subire quell’egemonia sempre più pesante. L’omicidio dell’on. Salvo Lima, nel marzo 1992, uno degli esponenti di vertice dei piani alti, è stato l’epilogo di questa parentesi patologica ma anche l’inizio di una nuova fase».
In che senso?
«A quel punto è iniziata la reazione dello Stato. Reazione applaudita dalla stessa cosiddetta borghesia mafiosa - traumatizzata dall'omicidio Lima e da quello successivo di Ignazio Salvo, altro esponente dei piani alti - sino a quando si è limitata a togliere di mezzo tutti i quadri più importanti della mafia militare. E invece demonizzata e inceppata quando si è rivolta contro “il principe”. L’innegabile ridimensionamento della mafia militare determinato dall’efficacia e continuità nel tempo della risposta statale, non ha sconfitto la mafia. Ha prodotto semmai l’effetto non voluto di ripristinare “la fisiologia del sistema di potere mafioso” descritto prima. I piani bassi sono ritornati nei ranghi ed hanno imparato a stare al loro posto, evitando omicidi eclatanti per scomparire dall'agenda dei media. I piani alti hanno visto riespandere il loro potere e sono tornati agli affari con modalità predatorie incruente e occulte, in cui sono specialisti, fatturando introiti criminali a confronto dei quali quelli della mafia militare sono poca cosa. È una delle cause fondamentali dello zavorramento dell’economia meridionale».
Esempi concreti?
«Non posso parlare di indagini in corso. Alcuni dati però sono sotto gli occhi di tutti. Alcuni protagonisti delle più recenti vicende di mafia sono tutti di estrazione borghese: medici, laureati in legge, imprenditori, impiegati, professionisti con ruoli di vertice nell'organizzazione. Le intercettazioni offrono uno spaccato impressionante: componenti della migliore borghesia cittadina di giorno incontrano i loro pari nei salotti e nelle stanze del potere, mettendo a punto strategie di occupazione del tessuto istituzionale e di accaparramento dei soldi pubblici. Di sera, nell'ombra, frequentano gli specialisti della violenza. Il numero dei colletti bianchi coinvolti nelle indagini, con ruoli di protagonismo, è tale da delineare un poderoso blocco sociale».
A livello nazionale vi è questa consapevolezza?
«I media nazionali sono monocoli. Hanno occhi solo per vedere la mafia che sta nelle stalle e si nutre di ricotta e cicoria. Il faro mediatico, ininterrottamente acceso per anni su Provenzano, ha oscurato l'altra parte del pianeta mafia, relegata nelle pagine delle cronache locali. Del resto il “principe” non ha mai amato la luce dei riflettori. Anzi: a volte si attiva per orientarne la luce in una sola direzione. Questa distorsione culturale nella percezione collettiva del fenomeno mafioso può avere gravi ricadute sul piano operativo e delle politiche criminali, alimentando l’illusione di una grave crisi di tutto il sistema mafioso che invece riguarda solo i piani bassi. Si continua ad orientare la maggior parte delle risorse nella direzione tradizionale delle indagini sulla mafia militare. Oggi più che mai, invece, a mio parere, la lotta alla mafia si dovrebbe condurre anche sul terreno in cui si muove il “principe”: la criminalità economica e quella dei colletti bianchi».
argomento tosto, vero ragazzi ?
Qualche commento ?
Il mio è: grande Scarpinato !
Sono d'accordo Belfagor. Per una volta una sintesi chiara, che non lascia dubbi sulle responsabilita' dei borghesi cosiddetti benpensanti e moderati che non si sporcano le mani e sono tanto tanto colti, eleganti, signorili. Il vero cancro della società siciliana, esportato con successo in tutt'italia.