Domande di sinistra (al Partito democratico)
di Gloria Buffo
Non è convincente la descrizione fatta dai giornali sugli affanni del governo Prodi: si tratterebbe, secondo gli opinionisti della grande stampa, di un malessere legato essenzialmente al peso eccessivo della sinistra radicale che condizionerebbe Prodi a discapito dell’agenda suggerita dai «riformisti» di Ds e Margherita. Questi ultimi, in procinto di varare con lo stesso Prodi il Partito Democratico, tentano di corregge la rotta, ricuciono con la Confindustria e i commercianti ma insomma… finché non si alza l’età pensionabile, non si riducono le spese sociali e non si liberalizzano i servizi pubblici locali, il governo Prodi non può che soffrire e tirare a campare: questo scrivono i giornali che contano.
Se non si comprende che questa fotografia del centrosinistra è truccata, non si afferra il vero bandolo della matassa. Sappiamo tutti che quella secondo cui gli impacci della coalizione nascono dalle posizioni della sua parte sinistra è una tesi interessata perché viene da chi altro non brama che un governo composto dai moderati dei due poli, benedetto dalla Confindustria (e magari ben visto da Ruini). Quello che resta in ombra invece è che, se questa tesi è interessata, l’analisi che la precede è fasulla.
In poche parole, non è vero che le difficoltà nascono dal fatto che le richieste dei riformisti sono trascurate nell’agire del governo. La verità, io credo, è un’altra: sono le riforme invocate da Fassino e Rutelli ad essere «deboli», ovvero non in grado di trascinare una coalizione per non dire un intero paese. E questo non solo perché, quando si parla di pensioni, si evocano cambiamenti piuttosto impopolari presso i diretti interessati; ma perché non si prevede quello scambio virtuoso che può far accettare a qualcuno una rinuncia in cambio di un vantaggio per la collettività e i giovani in particolare. Una volta avremmo detto che queste riforme non hanno «qualità trasformatrice».
Veniamo al merito delle posizioni: la richiesta e la promessa di mettere mano nei prossimi mesi a pensioni e pubblico impiego, oltre al federalismo fiscale, è il leit-motiv degli interventi di Fassino e sembrano condivise da Rutelli. Perché risulta così facile dire di no a questa agenda? E perché i militanti dei Ds, della Margherita o i cittadini dell’Ulivo non sono nei mercati e nelle piazze a spiegare quanto decisive sarebbero tali riforme per cambiare il volto dell’Italia? Io penso che la risposta sia semplice e spieghi perché la coalizione non sia affatto trascinata dal miraggio di questi traguardi mentre lo è stata quando Bersani annunciò di voler liberalizzare licenze e aprire fortini ormai ingiustificabili: il fatto è che non corrisponde al vero che l’età pensionabile sia la ragione che mette in pericolo il diritto alla previdenza dei più giovani; non sta qui lo «scambio» tra generazioni che può parlare all’Italia.
Non è che non si debbano fare le riforme e che tutta l’architettura sociale debba restare immobile: al contrario, il centrosinistra lascerà un segno solo se modificherà la piramide sociale non solo con la redistribuzione per via fiscale, che pure è necessaria, ma con un catalogo modificato dei diritti e dei poteri, e, sopra ogni cosa, con l’impegno strenuo di tutte le forze per creare il «lavoro buono». Come si fa a non vedere che il problema dei problemi per tutti e in particolare per i più giovani, e per le famiglie che patiscono le difficoltà di figli e nipoti, sta nella precarietà lavorativa? Perché allora i «riformisti» non propongono un patto sociale e produttivo nuovo che si fondi sul lavoro di qualità, stabile, corredato di diritti adeguati? Da qui e solo da qui può discendere uno scambio ragionevole sull’età pensionabile (per alcuni, non per la grande maggioranza, e in modo volontario). Perché la realtà è una e una sola: chi è giovane rischia di non avere alcuna pensione perché non ha un lavoro stabile e non perché quelli più anziani sono cattivi ed egoisti (tra l’altro molti di questi anziani non raggiungono nemmeno una pensione dignitosa).
Qui però i nodi vengono al pettine: i fautori del Partito Democratico non perdono occasione per ricordare che la legge 30 non è tutta da buttare, che la flessibilità è indispensabile, che ci vogliono gli ammortizzatori sociali altrimenti occorrerebbe introdurre qualche rigidità nel mercato del lavoro... come si vede siamo molto lontani da un impianto che faccia del contrasto alla precarietà e del «lavoro buono» il cuore di una strategia riformatrice. Nel mio piccolo ho sperimentato nel gruppo dell’Ulivo alla Camera che gli emendamenti alla finanziaria tesi ad invertire nettamente la direzione intrapresa con la legge 30 non vengono assunti dal gruppo. Se viene proposto che l’aumento dei contributi per i co.co.pro. si accompagni per legge a un meccanismo che impedisca di scaricare impropriamente tale aumento sui lavoratori, il gruppo non è d’accordo mentre grande passione mette nel farsi carico e rappresentare le preoccupazioni delle imprese, degli artigiani, dei commercianti…a volte anche a torto.
Molti parlamentari della sinistra Ds hanno presentato emendamenti sul lavoro, compreso quello sul diritto, per l’immigrato che denuncia chi lo tiene a lavorare in nero, a essere regolarizzato restando in Italia: perché l’Ulivo, futuro Pd, non è d’accordo? Abbiamo vinto nel gruppo sulla proposta di riformare l’autolincenziamento in modo da impedire il ricatto del datore di lavoro che assume una donna facendole firmare in anticipo una lettera per licenziarsi se resta incinta. Ci siamo impuntati perché non si sostenesse l’aumento del finanziamento alle scuole private e per bloccare i tagli alla scuola e all’università. Abbiamo riproposto i reddito minimo di inserimento ed il prestito d’onore. Ci siamo battuti perché sia fermato l’aumento delle spese militari... e via dicendo.
Ripresenteremo questi emendamenti in aula ma la piccola verità che si trae da questa discussione nel gruppo unico dell’Ulivo è evidente: nel Partito Democratico chi ha queste idee sulle riforme sociali (e quindi sulla politica economica), sui i diritti e sulle libertà, può certo fare una battaglia, alzare una bandiera ma alla fine il cuore di questo nascente soggetto batte già da un’altra parte. A ben vedere il congresso de Ds sarà anche su questo: vogliamo un partito che intende difendere più i commercianti che non i giovani precari? Perché l’immigrato che denuncia chi lo costringe al lavoro nero non viene aiutato ad uscire dalla sua doppia condizione di clandestino? Perché la lotta alla precarietà si fa, molto parzialmente, con il cuneo fiscale ovvero con risorse pubbliche, e così poco si chiede alle imprese? In fondo si tratta del nocciolo di una politica di cambiamento.
La domanda successiva allora e':
Ma che senso ha stare in un gruppo se si fa tanta fatica?
...(ma non e' ancora chiaro che - almeno io- ho votato ulivo e non quercia perche' voglio una SPD alla tedesca od alla austriaca... cosi' difficile capirlo? ) BHA?
BW
:-) mi piace, tutto ciò. :-) della serie forse il problema non è interrogarsi sul che c***o mai voglia dire riformista, ma su quel che si contrabbanda come "riforme". bueno. :-)
Carolina