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di Paolo Prodi
Tra le tante anomalie che distinguono il sistema politico italiano da tutti gli altri esistenti nelle democrazie occidentali, penso vada considerata una certa interferenza e a volte anche una sovrapposizione tra la sfera politica e quella sindacale. Abbiamo due ex sindacalisti che ricoprono la seconda e la terza carica dello Stato (la presidenza delle due camere) e numerose sono le personalità provenienti dal sindacato che occupano responsabilità nel governo nazionale e in quelli locali, nella direzione di grandi enti o imprese pubbliche. Credo che in nessun altro paese si riscontrino fenomeni di questo tipo. Sottolineare la necessità di un chiarimento può essere ritenuto in questo momento un’affermazione antipopolare oltre che antisindacale e la destra ne ha fatto un’arma in questo senso con la assurda proposta di «liberalizzazione» dei sindacati e con la sua lotta contro i patronati, contro tutti i cosiddetti privilegi sindacali. Ma penso che negare il problema non sia una soluzione.
La soluzione va ricercata in senso opposto, riaffermando la valenza costituzionale del sindacato. Una ridefinizione del suo ruolo sembra necessaria proprio per difendere ed esaltare la sua funzione di fronte ai problemi nuovi posti dall'evoluzione sociale del nostro paese e penso soprattutto che non si può affrontare il problema della riforma del sistema politico dei partiti senza affrontare anche il problema del rapporto tra politica e sindacato. Finché infatti il corpo politico italiano è rimasto (come rimane tuttora) diviso in decine di partiti, vi sono state indubbie patologie ma il sistema delle grandi confederazioni sindacali ha in qualche modo retto: se andiamo verso il Partito Democratico e verso la compattazione dei protagonisti della politica, occorre ripensare anche la presenza sindacale nel nostro paese se non vogliamo che la patologia si aggravi e investa la stessa funzione del sindacato, ancora e sempre centrale per lo sviluppo della nostra società.
Esistono naturalmente delle giustificazioni storiche che hanno spinto il sindacato o i suoi uomini migliori ad «occuparsi» di politica nell'ultimo ventennio, particolarmente dopo la crisi giudiziaria di «mani pulite» che ha messo fuori gioco gran parte della classe politica, ma occorre dire che già da prima il sindacato aveva assunto in Italia un peso politico abbastanza eccezionale, non previsto dai padri costituenti: una forza determinante che il sindacato ha sviluppato nella lotta quotidiana per difendere la democrazia negli anni bui del terrorismo e della crisi delle istituzioni. Quindi la tesi del necessario rinnovamento, che sostengo, non vuole essere in nessun modo una condanna anzi contiene un riconoscimento di una funzione storica che per tutti noi è stata fondamentale.
Nel nuovo panorama storico dobbiamo ripensare tutto il nostro sistema e per ripensarlo dobbiamo ripartire dalla Costituzione. Cominciamo quindi a rileggere insieme i due articoli della nostra Costituzione che riguardano i sindacati e i partiti. Art. 39 - L'organizzazione sindacale è libera. Ai sindacati non può essere imposto altro obbligo se non la loro registrazione presso uffici locali o centrali, secondo le norme di legge. È condizione per la registrazione che gli statuti dei sindacati sanciscano un ordinamento interno a base democratica. I sindacati registrati hanno personalità giuridica. Possono, rappresentati unitariamente in proporzione dei loro iscritti, stipulare contratti collettivi di lavoro con efficacia obbligatoria per tutti gli appartenenti alle categorie alle quali il contratto si riferisce.
Art. 49 - Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale.
Dell'art. 49 ho parlato più volte su queste colonne per sostenere la necessità di un ritorno allo spirito della Costituzione, di mettere norme sicure alla democrazia interna dei partiti, a garanzia non soltanto degli iscritti ma anche di tutti i cittadini, e soprattutto di renderli soggetti giuridici di diritto pubblico responsabili a tutti gli effetti: tutti sanno che i più illuminati dei padri costituenti volevano per questo una norma più esplicita ma che questo non fu possibile nel primo dopoguerra perché di fronte ai partiti-chiesa e nell'atmosfera della guerra fredda prevalse la preoccupazione che nessuno potesse intromettersi nei loro affari interni. Già nel 1958 Luigi Sturzo, prevedendo le degenerazioni successive, aveva presentato un progetto di attuazione dell'art. 49 che potrebbe essere ripreso ancora oggi alla lettera: dalla registrazione e il deposito presso la cancelleria del tribunale degli statuti, in modo da chiarire in modo inequivoco la personalità giuridica di diritto pubblico, al necessario controllo sugli aspetti della gestione finanziaria e sull’applicazione del «metodo democratico» nella loro vita interna: il cittadino deve avere il diritto di prendere visione degli atti depositati in cancelleria e fare denunzia al magistrato delle violazioni di legge.
L'art. 39 relativo ai sindacati, sul quale desidero oggi attirare l'attenzione, risulta molto più esplicito e chiaro: ne fa dei soggetti di diritto pubblico a pieno titolo ed esige uno statuto interno a base democratica. Ciò spiega certamente la forza e il peso dei sindacati nella società italiana nel successivo cinquantennio, anche dopo la scissione e la moltiplicazione delle sigle sindacali, rispetto alla debolezza dei partiti. Venuta meno o affievolite le contrapposizioni di tipo ideologico sono rimaste tra le confederazioni sindacali soltanto differenze identitarie secondarie come, ad esempio, le diversità statutarie che ancora distinguono la Cgil dalla Cisl o dalla Uil: una maggiore concentrazione verticale con la prevalenza della struttura federale sulle singole componenti oppure una visione più confederale con molta più autonomia delle componenti federate.
Il problema ancora irrisolto sembra, a mio avviso, quello della rappresentanza e della rappresentatività su cui ha posto recentemente l'attenzione Aris Accornero, uno dei maggiori studiosi di sociologia industriale e soprattutto, uno degli studiosi che più è stato vicino alla Cgil negli scorsi decenni. Il secondo comma dell'art. 39 prevede infatti la capacità dei sindacati di stipulare - «rappresentati unitariamente in proporzione dei loro iscritti» - contratti collettivi di lavoro con efficacia obbligatoria. Senza entrare in analisi tecniche-giuridiche penso si possa dire che la soluzione empirica della formula delle «associazioni sindacali più rappresentative» ha garantito per molti decenni la base, lo zoccolo duro delle relazioni industriali ma non è più in grado di reggere nella situazione attuale in cui, indebolitisi i grandi comparti sui quali le associazioni si basavano (metalmeccanici, chimici , ferrovieri ecc) ci troviamo di fronte ad un mondo totalmente frammentato, nel quale gli interessi non sono più disposti su un fronte lineare ma sono largamente scomposti. Soprattutto mi sembra messo in discussione il sistema attuale delle deleghe che si rivela incapace di operare in mare aperto: mentre ha ancora successo nelle categorie dei dipendenti pubblici e dei superstiti comparti industriali si rivela impotente di fronte a un sistema di relazioni di lavoro fortemente parcellizzato in cui - pensiamo al settore dei trasporti o in generale ai servizi - singole, limitatissime e sconosciute sigle sindacali, possono mettere in blocco l'economia del paese e danneggiare la massa dei consumatori.
Ma pensiamo soprattutto al precariato, il problema emergente e drammatico, sul quale è puntato l'interesse di tutto il paese. Non credo che sia sufficiente un impegno del sindacato nei termini indiretti, come viene concepito sin ora con la generica azione di tutela in favore di una modifica della legge 30 (la cosiddetta legge Biagi) e iniziative per l'incentivazione del lavoro a tempo indeterminato. Questi sono obiettivi propriamente politici che vanno certo perseguiti e sono perseguiti giustamente dalle Confederazioni, ma ciò non basta e può provocare anche problemi se manca una rappresentanza di questo mondo in senso pieno e giuridico. Un mondo sempre più dominato dalla flessibilità del lavoro, dal passaggio da un lavoro ad un altro ed anche da una professione ad un'altra, esige un allargamento della rappresentatività che con le sue attuali strutture il sindacato non può certamente dare. E se tutto questo mondo viene sottratto a lungo ad una gestione dei conflitti in quanto non rappresentato dal punto di vista giuridico è fatale prevedere che prima o dopo i conflitti scoppieranno in pericolose tensioni sociali. Intanto la media dell'età degli iscritti ai sindacati cresce di anno in anno e si profila quindi anche una preoccupante crisi generazionale che non può non porre problemi ai responsabili dei vertici.
In questi giorni l'opinione pubblica è rimasta sconcertata dalla presenza anche di membri del governo nelle manifestazioni e nei cortei dei precari e si è approfittato di questo per un attacco al governo e al centrosinistra indicando questi fenomeni come manifestazioni di una lacerazione all'interno della maggioranza. Ma nessuno ha osservato che al di sotto, nel profondo, questo implica una confusione tra politica e sindacato ben più grave delle sovrapposizioni a cui abbiamo accennato all'inizio e che è necessario aprire con grande coraggio una discussione sull'assetto del sindacato in Italia per attualizzare nelle nuove circostanze la nostra costituzione.
ma il sistema delle grandi confederazioni sindacali ha in qualche modo retto:
verissimo.
per questo non vedremo mai le riforme.