Se cade Siniora
di Robert Fisk
Gli sciiti, ovvero la comunità più numerosa del composito mosaico libanese, non sono più rappresentati al governo. Si tratta di capire se ci si trovi di fronte a una delle tante espressioni di ostilità reciproca che connotano la politica di questo tragico Paese, o se questo sia un segno dell’estrema drammaticità del momento.
Hezbollah e il movimento Amal sono usciti dalla compagine governativa, spezzando quel sistema confessionale apparentemente consensuale – di ispirazione francese, manco a dirlo – che sembrava tenere insieme questa tormentata nazione. Hezbollah preannuncia dimostrazioni di piazza per chiedere un governo di “unità nazionale”, il che significherebbe che Sayed Hassan Nasrallah, padre della cosiddetta “vittoria divina” della scorsa estate su Israele, punta a formare un nuovo governo filo-siriano.
Per chi aveva deciso di sostenere la “democrazia” libanese, queste sono ferali notizie. È vero che le dimissioni dei cinque ministri – due in rappresentanza di Hezbollah e tre del movimento Amal – non bastano a rovesciare il governo (perché ciò avvenga, bisogna che rimangano scoperti otto dicasteri), pur tuttavia in una società confessionale questo vuol dire che la comunità religiosa più numerosa del Paese non è più formalmente rappresentata in sede decisionale.
Hezbollah rappresenta il braccio lungo della Siria in Libano, il polmone attraverso cui respira l’Iran, e ora minaccia disordini che potrebbero riaccendere storiche divisioni. La posta in gioco? Il tribunale internazionale che dovrebbe giudicare i responsabili dell’uccisione lo scorso 14 febbraio dell’ex premier Rafiq Hariri, e la possibilità che quella “unità nazionale” sulla quale Hezbollah insiste dia vita ancora una volta a un governo amico della Siria.
Naturalmente le cose non sono così semplici – nulla lo è, in Libano – ma questo basta per instillare il germe della paura nel governo democraticamente eletto di Fouad Siniora, amico e confidente di Hariri. E ancor più negli americani che hanno appoggiato l’avvento della “democrazia” in Libano, per poi disinteressarsene del tutto l’estate scorsa durante i bombardamenti degli israeliani.
Cos’è che ha dato il via a questa crisi così grave proprio ora che nel Paese confluiscono a migliaia truppe straniere per assicurare una pace che appare invece ogni giorno più autolesionista?
Chiaramente, uno dei fattori è costituito dal Tribunale internazionale. Venerdì scorso l’Onu ha fatto pervenire a Siniora la bozza di provvedimento per l’istituzione del tribunale che dovrebbe giudicare i sospetti assassini di Hariri, molto probabilmente agenti dei servizi segreti sia libanesi che siriani al soldo del regime siriano del presidente Bashar Assad.
Il presidente Emile Lahoud, legato ad Assad da solida amicizia, ha già fatto sapere che gli serve tempo per studiare a fondo le raccomandazioni dell’Onu prima di indire la riunione di gabinetto che dovrebbe consentire al Parlamento di esprimere il proprio voto in merito. Samir Geagea, membro del Parlamento ed ex leader della disciolta milizia cristiana, che ha alle spalle undici anni di detenzione in un carcere sotterraneo dei filo-siriani, sabato scorso ha accusato senza mezzi termini Hezbollah di voler sovvertire la “democrazia” in Libano, sostenendo che «si cerca di impedire la costituzione del tribunale internazionale». A questo punto, sono usciti dal governo sia il movimento armato Hezbollah che i ministri rappresentanti il partito rivale Amal. Il premier Siniora, economista amico di Hariri e contrario alle soluzioni di forza, dice di voler respingere quelle dimissioni. Attende il rientro degli uomini di Nasrallah, ben consapevole del fatto che la loro assenza prolungata, per quanto non infici la legittimità del governo, pur tuttavia determinerebbe la disgregazione del Paese.
Con tutta probabilità, i cristiani non raggiungono il 30 percento della popolazione libanese, ma con i sunniti che li appoggiano sotto la guida del figlio di Hariri, Saad, riescono a formare una maggioranza irraggiungibile per gli sciiti. La Siria e l’Iran, che armano Hezbollah, aspettano di vedere cosa offriranno loro gli Stati Uniti per placare gli animi in Libano. Se, per esempio, avranno assicurazione che non sarà loro imputato l’assassinio di Hariri, gli sciiti saranno forse indotti a rientrare nel governo. Assicurazione che dovrà comprendere la garanzia che il presidente Assad non sarà ritenuto personalmente responsabile dell’assassinio. Il contributo della Siria nell’opera di pacificazione dell’Iraq sarà parte del prezzo da pagare.
Ancora una volta si sacrificherà il Libano in favore degli interessi americani? La risposta potrebbe risiedere nell’ultimo rapporto Onu sul delitto Hariri, assai più blando nei confronti del regime siriano di quello precedente. Il ministro delle Comunicazioni Marwan Hamadi, lui stesso sfuggito a un attentato alla sua persona ha parlato lunedì di possibili trattative per il rientro della rappresentanza sciita nel governo.
Sabato si è avuta la brusca rottura dei colloqui tra i partiti pro- e anti-siriani, cui partecipava anche il movimento «14 marzo» guidato da Saad Hariri. Il movimento di Hariri detiene la maggioranza in parlamento, ma l’ex generale cristiano maronita Michel Aoun – i cui sostenitori non vedono più di buon occhio l’alleanza a fini elettorali con Hezbollah – ne contesta la rappresentatività nel governo; nel quale vorrebbe far entrare tre suoi fedelissimi.
Ad ogni modo, si sta brigando per mettere divisione tra i cristiani e i musulmani sunniti del Libano e i loro correligionari sciiti. Ma le dimostrazioni di piazza che vedessero da un lato cristiani e sunniti, dall’altro sciiti, difficilmente avrebbero l’esito sperato, tenuto conto che l’esercito libanese è per la maggior parte formato da elementi sciiti.
C’è poco da illudersi, purtroppo.