I cortei e la tragedia
di Amos Luzzatto
Le manifestazioni cosiddette «di piazza» stanno diventando a pieno diritto una delle espressioni della nostra opinione pubblica, al punto da essere promosse persino da quelle parti politiche che un tempo le bollavano come demagogiche e chiassose perdite di tempo.
Proprio per questo, si impone loro la responsabilità politica di presentarsi con analisi e proposte meditate e di avere come scopo più che lo sfogo di un’ira repressa o, peggio, l’indicazione di un soggetto, individuale o collettivo, che sarebbe il capro espiatorio, il «grande colpevole» dei mali del mondo, quello di esercitare una pressione per soluzioni possibili e costruttive.
Quello che si chiama «il conflitto israelo-palestinese» può essere materia di elaborazione a livello di governo, di Parlamento, di conferenze internazionali ed anche di pubbliche manifestazioni. Ma una cosa mi pare certa: a qualsiasi livello, il problema centrale è di avviare le parti in conflitto a dialogare attorno a un tavolo, piuttosto che a spararsi sul campo o negli agguati.
Qualunque iniziativa, a qualsiasi livello, deve porsi il problema se gli strumenti impiegati serviranno o meno ad avvicinare questo obiettivo. Non ho dubbi personalmente che bruciare bandiere o fantocci, invocare la moltiplicazione di simboli conosciuti di morte e di distruzione sia un implicito invito a promuovere nuovi e più terribili scontri e non a cercare le trattative per una soluzione accettabile alle parti in conflitto.
Qui sorge un primo problema: il conflitto israelo-palestinese è una vertenza locale, limitata a questi due popoli? Oppure si tratta della punta di un iceberg, che indica l’esistenza di una crisi molto più estesa e molto più pericolosa? Del resto, le manifestazioni svoltesi sabato a Roma e a Milano hanno già, implicitamente fornito la seconda risposta; non ne ricordo infatti molte altre altrettanto passionali svolte per altri conflitti che mietono numeri molto maggiori di vittime, oppure per il pericolo di diffusione delle armi nucleari, che aumenta enormemente il rischio che, per un banale errore umano o tecnico, possa esplodere una conflagrazione distruttiva che nessuno di noi farà in tempo a ricordare.
Se è così, se si tratta di una vertenza le cui radici vanno al di là di quella stretta striscia di terra fra il Giordano e il mare, per assumere dimensioni regionali e forse anche più estese, abbiamo tutti il dovere di capirla meglio senza cadere in un manicheismo tanto facile quanto improduttivo. Quello che sfortunatamente sfugge a gran parte dei leader politici mediorientali è che l'affermarsi degli Stati-nazione nell’Europa degli ultimi due secoli, con il loro sciovinismo e con la loro potenza militare, ha generato, contemporaneamente, il razzismo al loro interno (antiebraico, anti-rom, anti-slavo e anti-latino) e le conquiste coloniali al loro esterno, le quali contenevano a loro volta un’ulteriore forma di razzismo. A ben vedere, lo stesso termine di «terzo mondo» che oggi pare una innocua designazione geografica, è erede di questa proclamata superiorità dell’Europa e delle sue propaggini oltre Oceano.
La vera tragedia del Medio Oriente è stata l’affannosa ricerca di un tutore del «primo mondo» per crescere sotto il suo ombrello. Certo, gli ebrei che giungevano in Palestina fuggendo come profughi dall’Europa avevano coltivato, ma per breve tempo, la speranza di aver trovato nella Gran Bretagna questo tutore; di contro, con la leadership palestinese del Gran Mufti di Gerusalemme, la speranza di questi ultimi era stata riposta nella Germania hitleriana. Il vero segreto avrebbe dovuto essere di lavorare assieme, arabi ed ebrei, per lo sviluppo e la rapida emancipazione della Palestina. Non è stato così allora, purtroppo, e non è stato così neppure negli anni del dopoguerra. Oggi l’obiettivo «due popoli - due Stati», formulato alcuni decenni fa (e mai avviato a realizzazione) resta un obiettivo giusto, ma di per sé del tutto insufficiente. L’obiettivo più esteso dovrebbe essere un Medio Oriente integrato, con l’obiettivo di sviluppare le forze produttive, l’educazione e la salute - molto meno le forze militari - con lo sforzo congiunto di tutte le popolazioni della regione, contro i particolarismi sui quali fanno leva i conflitti.
La democrazia deve diventare un comune denominatore di questa integrazione.
Questa parola non deve significare solo periodiche consultazioni elettorali con voto segreto, ma ancor più permanente libertà di espressione e libera circolazione delle idee. Il contrario si chiama fondamentalismo, che non è solo religioso, tanto meno è caratteristica specifica di una determinata religione, ma caratterizza qualsiasi sistema ideologico che ritenga di essere in possesso della indiscutibile verità, di quella verità che non si adegua mai alla trasformazione della realtà materiale del mondo, ai cambiamenti della cultura, alla sfida della critica. Il fondamentalismo è facilmente presentabile alle folle: tutto il bene da una parte, tutto il male dall’altra. Troppo spesso - ma ci siamo tristemente abituati - il collocamento degli ebrei è presentato dalla parte del male.
L’errore più pericoloso del nostro tempo è quello di attendere, se non addirittura di auspicare, non tanto uno scontro di civiltà, quanto uno scontro di fondamentalismi. Che può essere soltanto la guerra. Auspicabile soltanto da coloro che non sanno di che cosa stanno parlando.
Il nostro mondo è oggi confrontato con una spaccatura fra mondo ricco e mondo povero. Non è una spaccatura geografica e neppure una spaccatura fra coloro che possiedono le risorse del pianeta e coloro che ne sono privi; è una spaccatura fra coloro che possono decidere dell’utilizzazione di queste risorse e coloro che non hanno questo potere.
La politica, quella con la «P» maiuscola, dovrebbe avere la capacità di intervenire su questi problemi ed con urgenza. Se lascia il campo scoperto, questo verrà occupato. Dai fondamentalismi, appunto. Proviamo a manifestare contro questi, chiediamo ad alta voce il recupero della cultura, della conoscenza, della convivenza civile.