Il tormentone socialista
di Giuseppe Tamburrano
Sulle colonne di questo giornale recentemente ho scritto alcuni articoli sulla «rimozione del socialismo». Altri sono intervenuti, ad esempio Emiliani, Veltri, tutti sostanzialmente sulla stessa linea: il socialismo è cancellato nella produzione storica e nel circuito mediatico.
Non credevo che avremmo ottenuto un così grande successo: il «socialismo» è diventato il centro del dibattito politico a sinistra. Alcuni esempi: la maggior difficoltà, nella discussione sul Partito democratico, riguarda il socialismo poiché i diessini in generale vogliono appartenere al socialismo europeo e all'Internazionale socialista, mentre la Margherita si oppone risolutamente.
In vista della nascita del nuovo partito, Angius e altri esponenti diessini hanno annunciato che costituiranno una corrente che si chiamerà «socialismo». Salvi e Mussi sono anche più risoluti: non intendono rinunciare al socialismo a rischio di non entrare nel Partito democratico. E così in molte lettere a l’Unità.
Peccato che l'unico partito, lo SDI, che fino a poco fa si è fregiato della definizione "socialista" avendone titolo perché erede diretto del PSI, mentre era in corso questa larga conversione abbia rinunciato a quell'appellativo per diventare, insieme, anzi sotto a Pannella, "Rosa nel pugno" (restando con un pugno di mosche in mano). Segnalo a chi si consola con poco prezzo che De Michelis non ha rinunciato a quella parola.
Insomma è in corso una metempsicosi e l'anima socialista trasmigra e si reincarna nel corpo dell'ex PCI?
Su questo fervore "socialista" che cresce nel Partito dei DS, D'Alema, con una delle sue battute che non sono cinismo, ma lucida franchezza, ha lasciato cadere il gelo: "Non si può intimare a Marini di diventare socialista....D'altro canto, quando siamo entrati nel PSE, abbiamo portato la nostra tradizione gramsciana e comunista, non esattamente socialista" (Corriere della Sera, 22 ottobre 2006). Battuta, questa di D'Alema, che segnala un'altra stranezza. Normalmente un partito nazionale si iscrive al gruppo, all'organizzazione sopranazionale di riferimento: il partito liberale, per fare un esempio, si iscrive al gruppo liberale. Con i DS non è stato così: hanno chiesto e ottenuto di entrare nel Partito socialista europeo e nell'Internazionale socialista, ma hanno evitato accuratamente di chiamarsi socialisti in Italia.
Questa storia semiseria che racconto rivela una cosa seria. Partito democratico? Perché "democratico"? Non sono già democratici? DS è la sigla dei Democratici di sinistra: nel Partito democratico essi restano "democratici" e cessano (ahimé!) di essere di "sinistra". La Margherita è "Democrazia è Libertà" (bella scoperta!). "Democratico" oggi - chi non è democratico? - significa tutto e perciò niente. E si ha il timore che questo - tutto e niente - possa appunto essere il nuovo partito. Invece "socialista" dovrebbe significare qualcosa: non tutti sono socialisti e dunque quella parola dovrebbe connotare una precisa scelta di campo ideologica, politica, culturale. A me che sono socialista da molti anni questo "socialismo" dei DS appare incolore, inodore, insapore. Vorrei proprio sbagliarmi!
Non è solo il problema di ascendenza segnalato da D'Alema. Anche un "gramsciano" può diventare socialista (e io sostengo che sostanzialmente lo diventò proprio Gramsci in carcere). Ma ha il dovere di spiegare che cos'è il suo socialismo.
Come ti giri, tra favorevoli e contrari al Partito democratico, trovi sempre lo stesso problema, che in politica è fondamentale, decisivo. Per usare le parole di Papa Giovanni XXIII, non mi interessa da dove vieni, ma dove vai. Angius, Salvi, Mussi ci volete spiegare cos'è il vostro "socialismo"? In me - ma siamo parecchi - quella parola evoca un richiamo, provoca una emozione. E voi diessini che continuate a insistere nell'appartenenza del nuovo partito al PSE e all'Internazionale socialista ci volete spiegare estesamente perché? Un partito che nasce se non è l'unione di due vecchie case deve dire in che cosa sta la novità, deve illustrare il suo messaggio al paese. Non con un "manifesto" di "esperti d'area", ma con una mobilitazione di militanti, con grandi, capillari dibattiti sulle idee. Insomma che cosa sarà, che cosa vorrà, dove andrà tale partito; quali progetti, valori, identità lo definiranno.
Dicevano gli antichi: nomina sunt consequentia rerum. Lo dicono anche i moderni: i nomi sono la conseguenza delle cose. Quali sono dunque le cose?