La storia non è finita
La storia non è finita è una scelta di interventi di Claudio Magris pubblicati in gran parte sul Corriere della Sera in un arco di tempo compreso tra 1995 e 2005, che vale la pena di rileggere. Un decennio complesso che ha visto una sorta di lunga transizione di fatto ancora non conclusa, attraversata e caratterizzata da profondi conflitti ideologici e da contrasti laceranti. Situazione apparentemente comica e incomprensibile perché fondata su un dichiarato e ossessivamente ripetuto (ma già questo non è sarebbe una spia indiziaria della bugia?) tramonto delle ideologie.
Ma è proprio per questo tasso di incertezza a generare domande complicate. La prima riguarda la dimensione della memoria pubblica; la seconda quella dell'identità nazionale. Due istanze investite violentemente in una stagione di profonda ridefinizione della fisionomia pubblica della società italiana e caratterizzate dal fascino della devolution “un termine scrive Magris - ripetuto con iattanza e vacuo come il “cioè” post-sessantottino; non tanto una parola che esprime un concetto quanto un rumore” assolutamente velleitario quanto privo di contenuto.
Intorno alla questione della memoria, ridimensionata e ridiscussa una volta decostruito e sottoposto a critica il mito della Resistenza, indica una crisi reale di un paese incapace di trovare un luogo e un evento intorno a cui ricostruire un'identità collettiva a meno di non riproporre il mito del bravo italiano, Magris opportunamente invita a riflettere su un paese che ha a lungo dimenticato i propri morti e spesso quando li riscopre non è tanto per riparare a un torto, quanto per prolungare sotto altra veste lo stesso uso politico del passato che prima consisteva nel non nominarli, ovvero dimenticarli. E' in questo senso il caso delle foibe - una memoria che Magris ha estremamente presente e che in queste sue pagine ritorna spesso -non solo per l'uso distorto che ne è stato fatto negli ultimi dieci, ma per il silenzio che le ha circondate per un lungo cinquantennio.
Non diversamente è per la questione dell'identità, troppo spesso intesa come territorio dell'omogeneità e invece fondato su una sovrapposizione di fonti, di storie, di lingue, di esperienze che in parte sono nostre, in parte si trasferiscono dentro di noi e fanno parte di un patrimonio che è nella nostra mente, anche se non corrispondono a un nostro patrimonio originario ricevuto in eredità. In altre parole la convinzione che noi, tutti noi, siamo fatti di cose prese in prestito, e dunque esistiamo come immigranti, come insieme di esperienze che si trasmettono, e di pensieri che si comunicano, e che insieme definiscono la nostra identità non limitata alle parole che abbiamo imparato, o alle cose che abbiamo visto direttamente.
E' una condizione, quest'ultima, che opportunamente apre al territorio della laicità. Dimensione spesso bistrattata e vista come un residuo, un ferro vecchio, eppure indispensabile e tanto più in epoca di globalizzazione, caratterizzata da una ricerca spasmodica di radici. La laicità per Magris diviene quella condizione in cui si matura un rapporto non nevrotico e ossessionato rispetto alla questione della propria identità.
In uno scritto datata dicembre 1998, ma che mantiene ancora oggi la sua freschezza e dove Magris prende la distanze dall'entusiasmo laicista come da quello delle nuove passionalità per il sacro e fornisce in poche righe una definizione della laicità che particolarmente illuminante. Laicità scrive Magris significa tolleranza, dubbio rivolto pure alle proprie certezze autoironia, demistificazione di tutti gli idoli, anche dei propri; capacità di credere fortemente in alcuni valori, sapendo che ne esistono altri, pur essi rispettabili. (..) Laico è chi aderisce a un'idea senza restarne succube, impegnarsi politicamente conservando l'indipendenza critica; ridere e sorridere di ciò che ama continuando ad amarlo; chi è libero dal bisogno di idolatrare e di dissacrare, chi non la dà a bere a se stesso trovando mille giustificazioni ideologiche per le proprie mancanze”. In sintesi: “chi è libero dal culto di sé”.
Una condizione culturale che allude a una visione non eroica bensì alla fondazione di una dimensione civile della politica (altra parola che torma spesso in queste pagine) e che si traduce nell'invito a dismettere la pratica mentale utopica come disprezzo degli uomini concreti e a produrre storia senza che quest' impegno ingeneri ogni volta il loro annichilimento in nome dell'«uomo nuovo» o dell'«uomo unico».
Così se l'invito è certo a tenere dritta la barra sulla massima cara a Rousseau per la quale mirare a una società giusta e bene ordinata implica la ricerca di “una qualche regola d'amministrazione legittima e sicura, prendendo gli uomini quali sono e le leggi quali possono essere”, nel tentativo di ripensare a politica senza tralasciare l'utopia; ma assieme a ricercare un pensiero “mediano” non titanico. Ovvero sapere che non si dà mai una verità ultima, e dunque avere coscienza che nessuno è Dio e che solo coltivando un dimensione laica della storia è possibile prevedere gli altri da noi non come meri “incidenti di percorso” o come ostacoli alla realizzazione del nostro fine ultimo.
21.11.06 18:13 - sezione
parole