l suo cinema è il mistero buffo dell’America
di Alberto Crespi
Nei primi anni 70 Robert Altman era il regista preferito dei cinefili, perché le sue riletture dei generi classici di Hollywood (il western nei Compari, il film di guerra in M.A.S.H., il noir nel Lungo addio…) ci fecero capire come il cinema fosse un universo di miti che si trasformano e si riproducono, come la tragedia greca, come i poemi cavallereschi, come il mondo di cartone di Walt Disney. Da Nashville in poi (1975) divenne il cantore dell'«altra» America, quella che ci piaceva - quella contro Nixon, contro il Vietnam, contro i presidenti assassinati, contro la musica country che ci sembrava una cosa «di destra». Nella sua splendida vecchiaia è diventato lo scrigno della memoria, capace con l'ultimo Radio America di commuoverci e di farci finalmente capire come anche il country possa essere pura poesia, e come l'Arte con la maiuscola non sia mai di destra né di sinistra, ma sempre dalla parte (giusta) della gente. Robert Altman, morto lunedì a 81 anni, è stato molto semplicemente uno dei più grandi registi americani del dopoguerra. Forse anche uno dei più fraintesi: tante volte ci è sembrato un artista corrosivo e perennemente incazzato, e tante volte lui ci ha spiazzati mettendo nei suoi film un amore profondo per il suo paese, per le sue radici. Ha raccontato l'America come un grande carrozzone viaggiante, è stato il vero erede della tradizione dei «Medicine Show» (quei carri che giravano per il West portando nei paesini spettacoli di varietà, giochi di illusionismo e medicine più o meno miracolose e improvvisate, una delle quali più tardi si chiamò Coca-Cola). Ha saputo raccontarci il lato farsesco di quel paese, sempre però intravedendo, sotto la farsa, l'epopea. Il suo cinema, nel complesso, è un Mistero Buffo recitato con un grande amore per i buffoni.
Ci viene in mente ora, e non chiedeteci perché, che Dario Fo gli somiglia molto: è stato un artista politicamente schierato (sempre dalla parte dei Democratici), moderno ma innamorato della tradizione, anti-americano quando serviva e americano fino al midollo, autore di film drammatici pieni di esilarante ironia. È stato un regista di enorme spessore intellettuale che detestava analizzare intellettualmente il proprio lavoro. È stato un uomo contraddittorio, da amare o da odiare. I produttori lo odiavano perché il suo modo di lavorare era incontrollabile. Gli attori lo amavano perché dava loro più libertà creativa di qualunque altro regista. Il pubblico l'ha qualche volta amato, e qualche volta snobbato. Càpita.
Nel finale di Nashville, quando la cantante biancovestita Barbara Jean viene uccisa da un fan e il cantante biancovestito Haven Hamilton tenta di recuperare la situazione gridando «Siamo a Nashville, non siamo a Dallas», la baracca/America non si salverebbe se non ci fosse, lì di passaggio, la sfigata di turno Albuquerque che impugna il microfono e impone la legge del «the show must go on», lo spettacolo deve continuare. Albuquerque canta It Don't Worry Me, «non me ne frega niente», e quella canzone scritta da Keith Carradine con l'intento di comporre un canto di protesta diventa lo smascheramento del qualunquismo e del moralismo dell'America profonda. Eppure… eppure, anche lì, non c'è solo rabbia, non c'è solo denuncia. C'è anche commozione, perché Albuquerque ce l'ha fatta, ha avuto la ribalta che sognava, e canta, oh, come canta! Al tempo stesso, un odore di morte ammorba la scena, perché il cadavere di Barbara Jean (di Kennedy? di John Lennon?) è dietro le quinte, ancora caldo. Quel finale sintetizza tutto ciò che l'America è stata per Altman, per noi, per diverse generazioni di spettatori (e di persone) che si sono succedute dagli anni '60 in poi. Raramente il cinema ha espresso sintesi così folgoranti.
Era il 1975. Nashville non vinse l'Oscar perché si trovò ad affrontare filmetti come Barry Lyndon, Lo squalo, Quel pomeriggio di un giorno da cani e Qualcuno volò sul nido del cuculo; nella cinquina dei registi Altman sfidò Stanley Kubrick, Sidney Lumet, Federico Fellini - per Amarcord - e Milos Forman. Per la cronaca, fu quest'ultimo con il Cuculo a fare piazza pulita: che tempi! Altman aveva già 50 anni e veniva da lontano. Nato a Kansas City il 20 febbraio del 1925, aveva frequentato un'Accademia militare nel Missouri ed era diventato pilota di B-24. Appassionato di cinema, dopo il congedo andò a Hollywood ma nessuno se lo filò: tentò di lavorare come attore, autore di canzoni e sceneggiatore, ma dovette tornarsene a Kansas City con la coda fra le gambe e proprio in quella città, periferica rispetto a Hollywood ma importante nell'economia americana, iniziò la sua carriera. Fu assunto da una società, la Calvin Co., che lavorava nel settore del documentario industriale e imparò tutto sulla tecnica cinematografica durante una lunga, oscura ed utilissima gavetta.
Nel 1956, dieci anni dopo il primo tentativo, rientrò a Hollywood dalla porta di servizio: la televisione. Diresse episodi di serie famose (soprattutto Alfred Hitchcock presents e il serial western Bonanza) e dopo il '68 riuscì finalmente a firmare un paio di film non particolarmente fortunati, Countdown e Quel freddo giorno nel parco. Altman era ormai ben oltre i 40 e la routine televisiva stava forse cominciando a deprimerlo, ma la fortuna era dietro l'angolo: la 20th Century Fox aveva per le mani un bizzarro copione di Ring Lardner jr. che diversi registi avevano già rifiutato. Era una visione dissacrante e grottesca della guerra di Corea intitolata M.A.S.H., sigla sta per Mobile Army Surgical Hospital (ospedale mobile chirurgico militare). Altman si impossessò del copione e gli applicò uno stile, per l'epoca, rivoluzionario: mancanza di un centro narrativo, nessuna scena di battaglia, attori che improvvisavano i dialoghi e spesso «coprivano» uno le battute dell'altro, molti personaggi e nessun vero protagonista (a parte i due chirurghi figli di puttana interpretati da Elliott Gould e Donald Sutherland). Fu un successo clamoroso, con tanto di Palma d'oro a Cannes.
Era nato l'Altman-touch, il «tocco alla Altman», la coralità - il suddetto carrozzone delle meraviglie - che avrebbe improntato Nashville e successivamente Buffalo Bill e gli indiani, Un matrimonio, I protagonisti, Gosford Park e i due capolavori della maturità, America oggi e il recente Radio America. Questo è l'Altman che tutti conosciamo e amiamo, e abbiamo invece scelto di raccontarvi il percorso grazie al quale questo cineasta unico e miracoloso è diventato tale. Cantando la suddetta It Don't Worry Me, Albuquerque diceva anche «i morti non provano dolore». Speriamo sia vero.
a me piaceva moltissimo. non so se per l'innovatività negli anni '70 come ha detto la giuria degli Oscar, penso in genere, e anche in film più tardi... come quello dove si era ben preso in giro tutto il luccicante mondo della moda... forse solo gli ultimi erano più "complessi", o più tristi, o più disincantati. ma ha lasciato veramente moltissimo. che la terra gli sia lieve...
Carolina
Mi piacquero molto, all'epoca, "images", "i compari", "mash" e ovviamente "nashville"..l'altman "anziano" molto meno, ma è ovvio che quello che uno ha dire lo dice in un arco di tempo limitato..
Altman non era un regista amato in patria.
Qualcuno un giorno, sul New Yorker e con un sarcasmo che rasentò la volgarità, disse che siccome il cuore non era suo, si poteva permettere di non usarlo nei suoi film. Credo fosse invidia.
Per me Altman è stato uno dei più grandi maestri del cinema contemporaneo. Non finirò mai di ringraziarlo per averci regalato Radio America prima della sua triste dipartita.