Ecuador, la ricetta riformista del dottor Correa
La realtà elettorale dell'America Latina è decisamente molto complicata. In Messico il presidente di centro-destra non riconosce la vittoria del suo avversario e si proclama presidente. In Ecuador Rafael Correa, 43 anni, due dottorati in economia, pur avendo vinto con un margine netto (57%) rispetto al suo avversario Alvaro Naboa (43%) ha egualmente problemi di governabilità. La camera dei deputati è sotto il controllo politico di Naboa, mentre il secondo gruppo è guidato da Lucio Gutiérez, l'ex presidente costretto ad abbandonare il suo posto dai movimenti di protesta di strada nello scorso anno. Sono stati quei movimenti di strada che hanno consentito prima di dare vita a un governo di coalizione con la partecipazione di Correa al ministero dell'Economia, e poi di dare vita al movimento Alianza País, il partito di Correa.
Che ha fatto di rilevante Correa in questi mesi? In un governo orientato di fatto a riequilibrare le sorti del paese e teso a calmare la mobilitazione Correa, insieme a Ricardo Patiño (suo vice ministro, e ora nominato ministro all'economia) e Alberto Aricosta ministro per l'energia, ha aperto dapprima la questione del debito del paese, poi ha spinto per il rientro dell'Ecuador all'interno dell'OPEC, cartello da cui l'Ecuador era uscito nel 1992. In breve, l'obiettivo del rientro significa la fine del rapporto diretto e di libero commercio con gli Stati Uniti (lo stesso che ha portato alla dollarizzazione dell'economia in questi ultimi anni) e la ricostruzione di una politica di esportazione che toglierebbe agli Stati Uniti un controllo diretto o preferenziale sulla produzione di greggio, una realtà che per l'Ecuador copre il 40% delle proprie esportazioni e circa un terzo delle proprie entrate fiscali.
Correa dunque ha vinto, ma non ha i numeri in Parlamento per promuovere quei cambiamenti che ha annunciato in campagna elettorale: congelamento del debito estero; controllo nazionale sull'esportazione del petrolio; riduzione del costo dell'energia; sostegno pubblico ai ceti più poveri.
E' per questo che da martedì scorso, immediatamente dopo la certezza del risultato numerico, Correa ha posto la questione della riforma politica, dando vita a un'assemblea costituente incaricata di rivedere al cune riforme istituzionali e anche politiche in grado di dare stabilità all'Ecuador.
Correa sa di avere ora una parte consistente del paese reale con sé, ma sa anche di non avere molto tempo davanti a sé, proprio perché a differenza di Hugo Chavez, presidente del Venezuela, e Evo Morales, presidente del Bolivia, non ha un partito politico in grado di controllare il paese.
Ma lo differenzia da entrambi anche una specifica caratteristica culturale. Correa, infatti, ha una cultura politica ed economica fortemente influenzate dal solidarismo. Questo aspetto lo induce a scegliere una linea di ricomposizione anche con gli Stati Uniti. Per esempio nonostante le sue critiche Correa non premerà per una fuoriuscita dell'Ecuador dal dollaro; né premerà per una nazionalizzazione dei settori attualmente privatizzati o controllati da capitale straniero.
Come sostiene José Valencia presidente di Participación Ciudadana - una struttura di mobilitazione della società civile - Correa non è un antineoliberale. Nel suo profilo politico c'è prevalentemente Joseph Stiglitz - ovvero un'idea partecipata di globalizzazione - e non Michael Moore, ovvero il radicalismo di opposizione C'è più una politica nazionalista delle risorse che non una linea socialista dell'esproprio.
Se Correa riuscirà ad avviare il suo programma, e a attenuare le diffidenze che ora esprimono gli Stati Uniti, otterrà due risultati: non dividere il paese sulla politica economica e avviare una riforma politica reale, aprendo così un'altra ipotesi politica in America latina oltre il populismo e oltre la rivolta qualunquista. Non sarebbe poco.
02.12.06 08:57 - sezione
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