IL RACCONTO DEL TECNICO SEQUESTRATO E FERITO
Quella notte in mano ai guerriglieri del Niger»
di Jacopo Tondelli
Milano. Com’è lontano il delta del Niger dal
Policlinico che ospita Pietro Caputo. E com’è vicino e pungente, invece, il
ricordo di quella notte di fuoco tra le mangrovie, il 21 Novembre scorso, in cui una piattaforma della Saipem al largo
delle coste nigeriane venne assaltata da un commando in cerca di dollari. Un
altro gruppo tiene oggi in ostaggio i tre tecnici italiani dell’Agip rapiti il 7
dicembre scorso su una base di costa, e lunedì scorso ha fatto sapere che fino a
Natale dei tre, dati “in buona salute”, non si saprà nulla.
Quella notte di Novembre, il tecnico inglese
David Hunt perse la vita, mentre Caputo rimase gravemente ferito. Il suo nome
sparì presto dalle cronache che quasi unanimi rassicurarono sulle sue “non
gravi” condizioni, escludendo che fosse in pericolo di vita.
Oltre alle fonti societarie, venivano richiamate le conferme della Farnesina,
cui evidentemente sfuggivano le reali condizioni del tecnico italiano. Nella sua
stanza ci accoglie con gli occhi stanchi di chi non si è ancora abituato a fare
a meno del braccio destro, amputato d’urgenza alcuni giorni fa, e con la fretta
di chi vuole consegnare il racconto di quella notte prima che venga il suo turno
in camera iperbarica. “Ecco come sto, ecco la verità” dice sfilando a fatica
dalle lenzuola quel che resta del braccio. Poi la mente e la parola tornano a
quel risveglio con un kalashnikov piantato sotto la gola, alla folle corsa verso
riva in mano ai rapitori, ai due o tre litri di sangue – così gli han detto i
medici - lasciati tra l’Atlantico e il Niger. “Erano giorni che giravano attorno
alla nave” spiega. “Dopo l’avvistamento hanno girato alla larga per un po’, fino
alla notte dell’assalto. Tra loro c’era un nostro ex Nostromo licenziato mesi
fa, che sapeva esattamente come muoversi e cosa chiedere”. Un assalto che ha
colto l’equipaggio e la sicurezza del tutto impreparati. “La guardia era
composta di cinque uomini, insufficienti a tutelare la sicurezza di una nave
come quella. Personalmente, nutro seri dubbi sull’onestà del responsabile della
sicurezza, che quella notte si comportò malissimo”. Poi precisa che da allora le
misure di sicurezza della nave sono state irrobustite. “Oggi è composta da 52
elementi, nigeriani e bianchi”, reclutati di fronte ad un escalation che non
pare casuale né temporanea. Gli obiettivi sono tuttavia molteplici, come
dimostra l’assalto del 7 dicembre, e il racconto di Caputo sembra testimoniare
che una nuova strategia, non più costruita attorno ai sequestri-lampo, era in
preparazione da un po’. “Consegnarono un documento con le loro richieste e le
fecero pervenire a chi di dovere. Volevano subito 3,2 milioni di dollari,
scritto nero su bianco”. Il dipartimento Security della società si è attivato,
in Europa, ma a notte fonda il reperimento di tanto cash è impresa ardua per
chiunque. “E più passava il tempo e più alzavano il prezzo. Un’ora dopo il
riscatto era già a quota 5,2 milioni”. Il programma dei sequestratori,
ovviamente, non prevedeva di attendere i soldi al largo, ma di ripararsi al più
presto, con gli ostaggi, nella selva impenetrabile del delta del Niger. “Così
caricarono me e David su un fuoribordo” prosegue “e si diressero verso la costa.
Entrati nel delta, mano a mano che incontravamo imbarcazioni di pescatori le
depredavano di tutto ciò che avevano, e soprattutto di carburante”. Fino
all’intervento della Nevi, la marina militare nigeriana, che forse seguendo le
tracce dei banditi batteva in pattuglie i rami del delta. Immediato, scoppia il
conflitto a fuoco. “David è caduto riverso sul fondo della barca, e io ho visto
pezzi delle mie dita e della mia mano cadere in acqua. Ho dovuto ripararmi col
suo cadavere, ma purtroppo – prosegue Caputo – il mio braccio destro è rimasto
allo scoperto ed è stato colpito. Non so ovviamente dire da chi, in
quell’inferno, ma so che ho visto il mio avambraccio penzolare, attaccato solo
per un lembo”. Sfruttando il fondale basso, intanto, i sequestratori
sopravvissuti avevano trovato la via delle mangrovie dopo essere scesi dal
fuoribordo. Che intanto, nell’indifferenza della marina nigeriana, continuò ad
avanzare per circa un miglio, con a bordo i cadaveri di Hunt e di tre banditi.
“Quattro cadaveri e me, che stringevo il braccio più che potevo per ridurre
l’emorragia, mentre il battito cardiaco rallentava e respirare era
faticosissimo”. Finalmente il fuoribordo s’incaglia e si ferma, “in un silenzio
assoluto, terrificante”. Pensa che sia la fine, mentre il sangue non smette di
correre. A ridargli speranza sono i pescatori di passaggio che avvicinano
l’imbarcazione e la trascinano fino ad un rimorchiatore, e poi a riva. “Il primo
medico che mi ha visto ha detto che non c’era un attimo da perdere, che dovevo
arrivare all’ospedale di Port Harcourt”. Minuti che non finiscono mai, con
l’elicottero sprovvisto di carburante che arriva, riparte per fare rifornimento,
poi torna e preleva Caputo. “All’ospedale han fatto quel che potevano. Ma poi mi
han detto che se non arrivavo in Italia entro dodici ore ero spacciato”. A
vincere la corsa contro il tempo è un aereo attrezzato dell’Eni, che in cinque
ore e mezzo porta Caputo al Policlinico di Milano. Una prima operazione sembra
dare speranza di salvare l’avambraccio. Ma una notte Caputo si sveglia e vede il
braccio gocciolare sangue. “A tutta forza” ricorda. “L’equipe, richiamata
d’urgenza, ha deciso che non c’era altro da fare che amputare”. Gli amici, i
colleghi che sono rimasti in Nigeria lo chiamano, gli sono vicini. “Hanno tutti
paura, ormai. Aspettano solo la fine dei loro contratti per andare
via”.
vi è sfuggito che siamo in sede di rinnovo dei contratti con le testate?
e che l'agenzia italia sia dell'eni?
e che l'eni paghi le altre?
e la pubblicità per le testate cartacee?
è ora di smetterla di additare i giornalisti, sono schiavi come tutti noi, voi.
è alla conduzione delle testate che bisogna guardare. ai rapporti economici, e al peso della pubblicità.
non è solo l'eni
telecom
autostrade
confindustria, farmindustria, assoporti,
ifil e a scendere
l'
ogni centro di produzione possibile.
sono i regali del post tangentopoli. dopo un momento di trauma, hanno reagito avvelenati.
e nessuno ha saputo più fermarli. e voluto.
dopo la sbornia popolare è arrivata l'abitudine: abbiamo visto ciò che sapevamo, ci siamo guardati in faccia, oltre alle monetine niente accadde: e ci siamo rassegnati più di prima.
capirai, un braccio che penzola lacerato...
robetta, per il sistema.
da sistemare con pochi latrati dei cani piccoli, mica coi morsi dei lupi.
e se il riformista ha scritto questo, vuol dire che l'eni non gli vuol rinnovare le sovvenzioni. e sta ricattando.
smetterà presto, v'assicuro. pagheranno.
magari non subito, satete: ogni giorno in banca fa crescere i soldini.
Un assalto che ha colto l’equipaggio e la sicurezza del tutto impreparati. “La guardia era composta di cinque uomini, insufficienti a tutelare la sicurezza di una nave come quella.
Certo che col fatturato dell'Eni si potrebbe anche scegliere personale della sicurezza un po' più qualificato e in numero maggiore. Magari evitando di scegliere manodopera locale, facilmente corrompibile. insomma, in questo caso...whites only.
tra i tanti perchè di questo e di altri attacchi eccone alcuni, leggete il pezzo titolato:
Amnesty International
Rivendicare diritti e risorse: ingiustizia, petrolio e violenza in Nigeria
http://lists.peacelink.it/news/msg09694.html
"capirai, un braccio che penzola lacerato...
robetta, per il sistema.
da sistemare con pochi latrati dei cani piccoli, mica coi morsi dei lupi."
BEN DETTO.
E i fascistelli, curiosamente latitanti, cosa ne pensano? Incidente sul lavoro?