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di Paolo Prodi
Intendesi per populismo una malattia o patologia dei regimi democratici per la quale entra in crisi il principio della rappresentanza della sovranità popolare da parte degli eletti: si tende a creare un rapporto diretto tra i detentori del potere e gli umori del popolo inteso come un tutto unico ed omogeneo (le parole gente o la piazza nel linguaggio volgare vengono usate in modo equivalente) senza alcuna mediazione politica, abolendo o ridimensionando il ruolo dei parlamenti e dei partiti. In questo quadro sono emerse anche nella storia degli Stati democratici personalità carismatiche che hanno interpretato lo “spirito” del popolo.
Lo hanno interpretato e lo hanno incarnato nella propria persona, molto spesso con esiti letali per la stessa democrazia.
Questa può essere una definizione accademica. Ma, come per ogni malattia che si rispetti, esiste una pluralità di cause a cui fa seguito una diversità di diagnosi e di terapie; i mali di oggi sono diversi da quelli di ieri. Occorre quindi partire dai sintomi e dall’analisi del tessuto politico per individuare di quale tipo di tumore si tratti oggi: innanzitutto vediamo il quadro generale della patologia in Occidente per cercare poi di individuare il caso particolare del malato Italia.
Il nostro sistema democratico occidentale basato sui partiti, sul collegio elettorale, sulla legislatura parlamentare è nato nell’Inghilterra del Settecento ancor prima dell’era della ferrovia. Ora le coordinate spaziali e temporali, che stavano alla base di questo sistema e che bene o male avevano retto sino a qualche anno fa, sono crollate: le distanze sono annullate e il ritmo del tempo è completamente diverso. È lo stesso concetto di collegio elettorale come territorio-popolo rappresentato dall’eletto ad essere entrato in crisi, non soltanto quello dello Stato sovrano. Una visione storico critica porta a capire che tutte le riforme progettate dai tecnicismi dei politologi sono solo palliativi e che è assolutamente necessario per salvare la democrazia inventare forme nuove di partecipazione. Non è sufficiente lamentarsi dello svuotamento dei poteri delle nostre assemblee rappresentative, di una politica condotta sempre più attraverso gli schermi televisivi, prima con i sondaggi e poi addirittura come luogo di formulazione delle decisioni politiche. Queste cose sono gravissime ma come sintomi, non come cause delle patologie della nostra vita politica.
Le scelte fondamentali che l’uomo come animale politico deve compiere nel prossimo futuro sono del tutto incompatibili con gli spazi e i tempi elettorali del presente: sia nella necessità di rapidità dei processi decisionali sia - ciò che è ancora più importante - perché le grandi scelte come quelle relative alle tematiche genetiche, alle fonti di energie, al controllo delle risorse del pianeta, allo smaltimento dei rifiuti riguardano le generazioni future e molto spesso sono in netto contrasto con gli interessi elettorali del momento, al di là delle divisioni e dei programmi politici.
Non vi è soltanto un problema di difficoltà della prassi democratica rappresentativa ad inserirsi nel tempo e nello spazio tradizionale. Le diverse visioni e i diversi programmi politici che riguardano i punti ultimi della vita e della morte delle persone (ciò che si incomincia a definire come bio-politica) non coincidono poi per nulla con le visioni e i programmi che concernono il mercato, la protezione dei diritti economici, il welfare: i partiti quindi, nel cercare di concretare i diversi progetti e programmi politici, perdono le loro coordinate classiche di destra e sinistra, i loro punti di orientamento. Si rischia così di retrocedere anche nella politica interna dei singoli Paesi (e non soltanto sulla scena internazionale con la ripresa dei fondamentalismi e delle guerre di religione o di civiltà) ad una situazione simile a quella che ha preceduto qualche secolo fa la creazione dello Stato di diritto: riprendono forza rappresentanze di valori e di interessi (religiosi, economici ecc.) che si muovono al di fuori del formale gioco politico e che esercitano pressioni che possono diventare insopportabili per la democrazia. Appellarsi ad una generica difesa della “laicità” dello Stato non è sufficiente: occorre che la politica trovi gli strumenti ad essa propri per incanalare questi valori e questi interessi all’interno della vita pubblica nell’età della globalizzazione. Il ricorso, sempre rischioso, a personaggi carismatici è diventato impossibile: gli strumenti di propaganda, un tempo al servizio del potere politico, si sono in qualche modo rivoltati contro la politica costruendo essi stessi con le nuove tecnologie nuovi miraggi immaginari.
Questa situazione critica investe tutte le democrazie occidentali e le espone al pericolo di un populismo nuovo, del tutto diverso da quello tradizionale e storico che connotava l’affanno di società nazionali arretrate incapaci di raggiungere la democrazia matura (il populismo russo dell’Ottocento o quello sud-americano del secolo scorso, per intenderci). Ora si affaccia un altro tipo di populismo ben più pericoloso e invadente che porta con sé proposte di identificazione collettiva che sono al di fuori della dialettica democratica dello Stato di diritto occidentale, un populismo legato a realtà extra-politiche, siano queste le identità religiose od etniche oppure quelle legate alle grandi multinazionali e alla società del consumo. In questo quadro generale dobbiamo inserire anche il caso italiano il quale però presenta segni particolari di cedimento che non possono essere trascurati.
In primo luogo non si può negare la necessità per l’Italia di provvedimenti immediati che contrastino le degenerazioni più macroscopiche e forniscano se non delle terapie risolutive almeno dei medicinali che rallentino la progressione devastante della malattia. In particolare sono urgenti (per impedire il trionfo di un populismo italico e il collasso italico) due provvedimenti sui quali continuo ad insistere: la riforma elettorale (per ridare un senso al voto e un minimo di dignità agli eletti) e l’abbattimento dei costi economici ormai insopportabili della gestione della politica e della cosa pubblica.
In secondo luogo si deve pensare alla nascita del nuovo partito democratico non soltanto in termini di schieramento (con la paralisi e gli sguardi all’indietro a cui assistiamo) o federazione di forze esistenti, ma come un’occasione per uscire dalla altrimenti inevitabile deriva populista. Un nuovo modello di partito è necessario:
- per la creazione di nuove forme di legittimazione popolare (le primarie sono naturalmente un esempio da elaborare insieme ad altre metodologie complementari per favorire la partecipazione) e il superamento delle tessere;
- per realizzare nuove forme di ascolto e di dialogo, tra rappresentati e rappresentanti, legate anche allo sviluppo delle tecnologie informatiche come rete e non come imposizione di modelli;
- per inventare soprattutto una nuova laicità consistente non in una neutralità asettica e impossibile ma in una proposta positiva, capace di definire un approccio comune ai grandi temi della biopolitica e dell’ambiente.
Una semplice federazione o unificazione di forze esistenti sarebbe (al di là di ogni catastrofe elettorale prevedibile) non solo una resa alla vittoria del centrodestra ma una resa al populismo.
In sostanza il populismo è pericoloso non soltanto come strumento dei demagoghi di turno per fare cadere un governo o l’altro o perché rievoca panorami di dittature da terzo mondo, ma perché porta alla crisi della democrazia e della stessa politica in favore dei grandi interessi economici. Può darsi quindi che alla destra in fondo convenga sempre non pensare a questo pericolo perché il gioco in ogni caso andrebbe a suo vantaggio. Ma la sinistra, specie quella che si illude di vincere accentuando le identità particolari delle singole formazioni e dei singoli gruppi, dovrebbe riflettere sulle proprie strategie al di là delle rivalità suicide, nel Parlamento e nel Paese.