Darfur, il vento freddo della morte
Paul Vallely
Una pesante nebbiolina marrone-giallastra aleggiava ieri su Gereida all’estremità occidentale del Darfur, un luogo fino a un anno fa deserto e che ora ospita il più grande campo profughi del mondo. Faceva freddo, la temperatura si aggirava intorno ai 5 gradi. Nell’aria granelli di sabbia che serravano la gola. Non è quanto ci si aspetterebbe in Sudan dove per la maggior parte dell’anno il sole cocente trasforma la dura, arida terra in una gigantesca graticola.
Le 120.000 persone che hanno trovato rifugio in questa zona desolata per sfuggire ai combattimenti tra i gruppi ribelli e l’esercito sudanese con la sua milizia Janjaweed, si stringono le une alle altre per riscaldarsi sotto un cielo freddo e nuvoloso. Fa freddo così da settimane.
Ma c’è qualcos’altro che colpisce. Per raggiungere il campo bisogna attraversare un vasto paesaggio lunare nel quale si vedono solo pochi cespugli spinosi. Tutt’intorno per centinaia di miglia il paesaggio è contrassegnato da villaggi deserti, alcuni dati alle fiamme, altri abbandonati e spazzati dal vento che fa mulinare la sabbia.
Quando si arriva a Gereida ci si rende conto che il flagello maggiore non sono i fucili e le bombe dei continui combattimenti che affliggono il Darfur. Qui pochi muoiono per le ferite causate dalla guerra. «Circa il 95-96% delle persone muoiono di infezione, di polmonite o di malaria», dice Joanna Kotcher, coordinatrice medica del centro sanitario installato nel campo quattro mesi fa da «Merlin», una delle organizzazioni umanitarie sostenute quest’anno da «The Independent Christmas Appeal». «Il principale killer è questp ambiente. È un campo che ospita profughi, ma anche un luogo di infezioni». L’organizzazione «Merlin» è attiva nel Darfur dal 2004 e gestisce 15 centri sanitari e cliniche mobili in una regione dove ormai il ministro della Sanità del Sudan è assente. Quest’anno le equipe di «Merlin», finanziate dall’Unione Europea e dal governo degli Stati Uniti, hanno fornito assistenza medica a circa 150.000 persone. Ma solo a settembre sono riuscite ad iniziare la loro attività a Gereida.
È una attività delicata. Molte agenzie umanitarie hanno abbandonato la regione a causa del peggioramento delle condizioni di sicurezza. A poche settimane dall’insediamento a Gereida, l’equipe di «Merlin» ha dovuto essere soccorsa e portata in salvo dagli elicotteri dell’Onu in quanto i ribelli avevano occupato il campo profughi. I medici sono tornati qualche settimana dopo.
Le cliniche di Merlin garantiscono assistenza sanitaria di base: vaccinazioni, controlli prenatali e post-natali e controlli per quanto riguarda la malnutrizione. Alle donne in stato di gravidanza vengono forniti integratori alimentari, zanzariere e farmaci contro la malaria. «Attualmente posiamo curare circa 400 pazienti al giorno», dice Joanna Kotcher. «Ma stiamo per avviare un programma che ci consentirà di raggiungere le estremità del campo e quindi altre 4.000 persone».
L’organizzazione umanitaria soddisfa solo una piccola percentuale dei bisogni di un campo talmente grande che ci vogliono due ore di cammino per raggiungere la clinica «Merlin» dall’estremità del campo e molto di più per una donna che porta in braccio un bambino malato.
Le malattie che curano cambiano con il cambiare del tempo. Col caldo il problema principale è la malaria, specialmente la malaria cerebrale che dall’insorgere dei primi sintomi può portare alla morte in appena 15 ore. Ora, con il freddo e con la polvere presente nell’aria, il problema principale è la polmonite.
Ma il problema a monte va individuato nel fatto che quasi tutti i bambini che vivono nel campo sono malnutriti. Vivono di cereali e di un po’ di olio. Senza frutta o verdura, soffrono di carenze vitaminiche che «Merlin» cerca di curare con gli integratori. Quando la malnutrizione diventa grave, i bambini possono morire a seguito di affezioni banali come la diarrea.
Sono malattie che si diffondono facilmente in ambienti nei quali mancano l’acqua pulita e le più elementari condizioni igieniche. Le agenzie internazionali stanno facendo del loro meglio per affrontare il problema. La «Oxfam» ha scavato profondi pozzi che forniscono acqua di buona qualità. Ad ogni famiglia è stato chiesto di scavare una latrina e le organizzazioni umanitarie hanno fornito i rivestimenti di plastica e cemento. «In questo modo possiamo tentare di evitare che defechino all’aperto, pratica questa che diffonde le malattie», dice Joanna Kotcher che da 13 anni opera nel settore sanitario in posti caldi quali il Kosovo e l’Afghanistan. «E Merlin si occupa anche dell’educazione sanitaria per fare in modo che le famiglie comprendano l’importanza delle latrine e dell’igiene».
È un compito difficile. La vita nel campo è dura. Le donne dedicano cinque ore al giorno alla raccolta del legname per cucinare. I bambini fanno quattro ore di fila al giorno per prendere l’acqua in damigiane da 5 o 10 litri e poi fanno ritorno nelle loro pericolanti e precarie abitazioni.
«Se pensiamo al numero c’è da scoraggiarsi», dice Joanna Kotcher. «Ma i pazienti che vediamo ogni giorno apprezzano la nostra presenza. Non possiamo aiutare tutti, ma ogni bambino malato di malaria che aiutiamo è una vita salvata da morte certa. A mio giudizio la nostra è una presenza decisiva». Adesso, dice Joanna Kotcher, abbiamo bisogno di più personale. «È difficile reclutare gente disposta a venire nel Darfur.
L’ambiente è talmente difficile che c’è un elevatissimo turnover tra gli operatori umanitari. E alla comunità internazionale chiediamo denaro, cibo e medicinali. La situazione è molto critica. La vita di tutti i giorni è misera e i bisogni enormi. Non dobbiamo abbandonare questa gente».
In questo momento la cosa di cui abbiamo più bisogno, dice sempre Joanna Kotcher, sono le coperte. «I bambini perdono rapidamente il calore corporeo. Non ci sono colline, alberi o barriere per contrastare il vento, non ci sono rifugi né edifici né tende vere e proprie, ma solo strutture di rami, teloni e plastica azzurra. Non c’è un posto caldo che consenta ai bambini di indossare abiti leggeri».
Le agenzie umanitarie hanno distribuito una coperta per famiglia. La maggior parte delle famiglie hanno cinque figli. «L’obiettivo ora - dice Joanna Kotcher - è di dare due coperte a ciascuna famiglia». In un mondo in cui regna l’abbondanza, sembra una richiesta modesta.
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