Pena di morte e civiltà
di Moni Ovadia
La nostra attuale civilizzazione è ancora permeata dallo spirito di morte. La cultura della morte è forte e radicata a dispetto dei progressi e della legalità internazionale che è esile come un auspicio. La logica bellica, il terrorismo, l’abbandono di milioni di esseri umani grandi e piccoli alle fame ed alle malattie, mietono folle di vittime ogni anno. Appartengono alla cultura della morte anche le forme di schiavizzazione degli esseri umani sfruttati senza pietà, la loro tratta e tutte le forme di esclusione dal diritto alla vita che vengono praticate anche nel sedicente mondo sviluppato. Queste pratiche sono oggi routine e avvengono alla luce del cinico sole della quasi generale indifferenza e in nome di interessi economici ritenuti da molti legittimi comunque, anche se perseguiti con attività criminose, non solo dalla malavita organizzata. La condanna capitale è una delle forme di logica della morte più gravi, lo è in sé ma lo è soprattutto allorquando viene praticata da un’istituzione pubblica che rappresenta la collettività. Ora, se la pena capitale viene comminata ed eseguita in un sistema tirannico, l’atto è ignobile ed ingiusto ma coerente con la logica del potere. Quando è in vigore in sistemi democratici e persino in quella che da molti viene definita la più grande democrazia del pianeta, la cosa è oscena e ripugnante. L'istituto della condanna a morte non può in nessun caso essere considerato un atto di giustizia. Il giudizio di Cesare Beccaria - riportato alcuni giorni or sono dal nostro giornale nella striscia rossa - lo chiarisce con forza assiomatica già nel XVIII secolo:
«Parmi un assurdo che le leggi, che sono l’espressione della pubblica volontà, che detestano e puniscono l'omicidio, ne commettano uno esse medesime e, per allontanare i cittadini dall'assassinio, ordinino un pubblico assassinio». («Dei delitti e delle pene»)
Il divieto di uccidere, è uno dei pilastri della tanto strombazzata civiltà giudaico-cristiana. Fra le solenni dieci parole pronunciate nell’ambito della Rivelazione vi è «Non ucciderai». La parola non è emanata en passant, è un pilastro senza il quale l’intero edificio etico-giuridico crolla. È scritto «non ucciderai» senza se e senza ma. È pur vero che la scrittura è costellata da minacce di condanne a morte, ma l’apparato interpretativo delle leggi, parte integrante dell’intero sistema giuridico, chiarisce l’apparente contraddizione. Il Sinedrio, il massimo organo giudicante in epoca biblica, aveva la facoltà di comminare la pena capitale, ma se nel periodo della propria durata in carica avesse emesso una simile sentenza, il popolo poteva riversarsi nella piazze e chiedere a gran voce l’immediato scioglimento del sommo tribunale al grido di sinedrio assassino! Cosa ci vogliono insegnare i maestri con questo paradosso? Vogliono farci capire che vi sono dei crimini efferati che collocano chi li ha commessi nei territori della morte ammonendoci al tempo stesso, a non dimenticare che chiunque metta a morte un essere umano, quand’anche fosse lo stesso Sinedrio, commette un omicidio. La pena di morte è un atto ingiusto ed immorale che pretende di chiudere l'infernale circuito della violenza mortale e invece lo riapre perché in realtà pratica la logica della vendetta per conto altrui. Le vittime dei crimini ed i loro familiari possono essere sconvolti dal dolore e dalle terribili violenze subite ed essere attratti dalla vendetta, ciò è comprensibile, ma lo Stato non può farsi boia per conto terzi, legittimare legalmente il sentimento della vendetta e diventare uno stato omicida. La vera sconfitta dei tiranni criminali sta nell’edificare un mondo che sconfigga la logica da cui sono stati generati. Vedere quel mondo di giustizia, di uguaglianza e di dignità dell'uomo crescere e prosperare, dovrebbe essere per il tiranno massacratore, parte significativa dell'espiazione della pena, una pena dura ma sensata e non un omicidio. Senza la totale messa al bando della pena di morte, non varcheremo la soglia della civiltà della vita. Volere la pena di morte di un dittatore efferato, è chiedere una resa di conti apparente sotto la quale celare le vere ragioni dei crimini. Non è un caso che l’attuale presidente degli Stati Uniti George W. Bush, abbia esultato per la condanna a morte di Saddam. Chi è Bush? È un uomo che ha scatenato una guerra micidiale, che ha causato la morte di decine di migliaia di innocenti per gli interessi di bottega suoi e dei suoi amici usando deliberatamente come pretesto un cumulo di vergognose bugie. E come lo dobbiamo definire uno così? Io non voglio turbare la sensibilità delle anime fragili della nostra politica, lascio ai democratici dallo stomaco delicato il compito di fornirci una definizione plausibile.
Sto leggendo Lettere contro la guerra, di Terzani.
Uno dei concetti su cui insiste di più è che troppi (e fra questi soprattutto gli americani) fanno coincidere giustizia con vendetta.
Se non si supera questo livello animale con un po' di perdono non se ne esce.
Ma non riesco più a digerire tutto questo dispendio di parole. Cazzo!!! E' stato impiccato Saddam! Possibile che ci si mobiliti per un dittatore sanguinario e non lo si sia fatto per tutti gli altri, anonimi, molti dei quali innocenti?
Ipocriti!
Ultima cosa: con che faccia di merda ci lamentiamo del fatto che IN IRAQ ci sia la pena di morte e non diciamo un cazzo su quello che ancora avviene negli occidentalissimi USA?
Non ho mai conosciuto una sola persona, che fosse consapevolmente contraria all'istituto giuridico "pena di morte", che ammettesse eccezioni. Dovrebbe essere ovvio, ma apparentemente non è così.
C'è invece un sacco di gente che, quando si arriva a parlare della pena di morte comminata a qualcuno in particolare, si lamenta che non si parli "mai" della sorte degli "altri" condannati. Forse questo "sacco di gente" potrebbe stare più attento a quello che le succede intorno. Ogni condanna a morte eseguita negli USA è accompagnata da proteste (interne ed esterne), solo per fare un esempio.
Chi è consapevolmente contrario alle pena di morte - in quanto istituto giuridico - non ammette eccezioni. Non è ovvio? Apparentemente no, purtroppo.
Il caso della condanna a Saddam è particolarmente importante (oserei dire "emblematico").
È "facile" opporsi alla condanna a morte di un innocente; della vittima di un errore giudiziario; della "vittima" di un ambiente "criminogeno"; del "mostro" pentito. È "facile" opporsi alla morte comminata a chi "merita di continuare a vivere". In questo modo però ci si oppone alla sentenza, non alla pena. Non ci si oppone veramente all'istituto giuridico, ma al suo utilizzo in un caso particolare.
Saddam, invece, era ingiustificabile; indifendibile; "un dittatore sanguinario". Nessuno potrebbe decentemente sostenerne i "meriti", mentre le colpe sono talmente numerose che non si possono contare.
Opporsi alla pena di morte comminata a Saddam è davvero opporsi alla pena di morte in se stessa.
Se Saddam non fosse stato ucciso, ma punito diversamente, sarebbe stata sconfitta la logica della "dittatura sanguinaria", sulla quale si era basato il suo potere. Il messaggio per la regione medio-orientale e per il mondo sarebbe stato (potenzialmente) sconvolgente, scandaloso, rinnovatore: rispetto alla violenza un'altra strada è possibile.
Non uccidere Saddam avrebbe dimostrato che la barbarie può essere evitata. Che c'è un'altra via: la non violenza.
È secondo me marginale, ma degno di nota (e centrale nell'articolo di Ovadia) che la non violenza sia a fondamento della tanto strombazzata civiltà giudaico-cristiana, o perlomeno dei fenomeni religiosi da cui essa civiltà pretende di avere avuto origine; gli auto-nominati paladini del giudeo-cristianesimo, invece, applaudono alla "giusta" violenza contro i "nemici" e giustificano i - cosiddetti - danni collaterali. Se proprio vogliamo gridare agli "ipocriti" mi sembra di individuare in quest'ultimo filone una più interessante direzione di indagine...
P.S.: si faccia comunque attenzione a non confondere la "ggente mobilitata per Saddam" con chi realmente e consapevolmente si oppone alla pena di morte. Della pena di morte non frega in realtà niente a (quasi) nessuno; prova ne sia che questo thread ha ricevuto (con il mio) due commenti in quattro giorni (0,5 al giorno). I will survive, invece, ne ha totalizzati 242 in sette giorni (settanta volte di più). Una differenza significativa, tanto più che registrata tra un pubblico (si suppone) mediamente colto, attento, sensibile.
Mi ripeto: della pena di morte non frega in realtà niente a (quasi) nessuno.