Per non continuare coi fallimenti riformisti
So bene che, già leggendo il titolo, qualche onebloggaro cercherà nervosamente le pastiglie contro il mal di stomaco; io però penso che si sbagli. È legittimo pensare che cercare di migliorare il sistema non ha senso, che solo un cambiamento radicale ci farà stare meglio davvero; ma, visto che non crediamo più che la strada verso la rivoluzione si possa aprire grazie al peggioramento progressivo delle condizioni di vita, dovremmo tutti (sia riformisti che alternativi) essere interessati a che, nel frattempo, qualche miglioramento parziale si faccia davvero.
Si deve naturalmente definire cosa vuol dire essere riformisti, visto che, a tratti, persino il sig. B. dice di essere autore di riforme. Io ve ne propongo una definizione operativa, tagliata con l'accetta: sono riformisti quei progetti che cercano di rendere stato e società italiane più simili a quelli svedesi di oggi e più diversi dal Portogallo del 1950: un paese, per esempio, dove si paghino le tasse, dove chi è capace possa studiare, dove ci sia lavoro quasi per tutti, dove nessuno venga a giudicare i miei stili di vita.
Però, siamo di fronte ad un paradosso. Se si chiudessero in una stanza cinque politici e cinque economisti “riformisti” (non dite che vi piacerebbe farlo e poi buttar via la chiave, qualche volta lo penso anch'io), non avrebbero difficoltà a metter giù un programma condiviso di cose da fare senza esitazione: rivedere e sviluppare gli ammortizzatori sociali, riformare la pubblica amministrazione introducendo valutazioni di merito, rompere i monopoli nell'energia e nei trasporti, rendere più efficiente la giustizia, cancellare le corporazioni professionali, allineare la legge col costume nel diritto familiare… Bene, sono tutti d'accordo sulle cose che si dovrebbero fare, eppure “questa rischia di essere la quarta legislatura di seguito in cui le riforme non si faranno” si lamentava qualche settimana fa uno di loro. Evidentemente noi riformisti stiamo sbagliando qualcosa: cosa?
Enrico Letta è uno dei politici più lucidi del centrosinistra. Eppure gli ho sentito fare testualmente questo curioso ragionamento: “l'evoluzione demografica fa crescere numericamente le persone anziane - i partiti saranno sempre più sensibili ai desideri degli anziani - non potremo riformare (cioè ridurre NdA) le pensioni “ e qui si arresta con aria sconsolata e non dice più niente… E' esattamente lo stesso sentimento che ha spinto Prodi a dire “gli italiani sono pazzi”. I nostri politici si rendono conto che per le riforme non c'è consenso sociale. Non hanno la minima idea di come crearlo. Si guardano intorno smarriti, si rendono conto che certe cose bisognerebbe davvero farle, capiscono che non ci riusciranno e finisce per vacillare addirittura la loro fiducia nella democrazia come “sistema che fa prendere le giuste decisioni”.
Per questo disastro, qualche spiegazione e qualche attenuante c'è. Certamente in Europa in questi anni siamo in una situazione di basso sviluppo complessivo: siamo in una fase di declino economico almeno comparativo rispetto ad altre aree del mondo. Probabilmente sta finendo la società “delle aspettative crescenti” in cui chiunque poteva ragionevolmente confidare che suo figlio avrebbe vissuto meglio, più ricco e più soddisfatto di lui. Le ricette giuste, in molti casi, sono ricette amare. È difficile ottenere il consenso: bisogna chiedere ai cittadini di “rinunciare ad un uovo oggi per ottenere una gallina domani”. Ci vorrebbe un sovrappiù di autorevolezza, di credibilità, di statura morale. E, invece, diciamoci la verità, questi riformisti non ispirano fiducia.
Lo sanno anche loro. Perciò, fino ad ora hanno cercato di cavarsela con una versione moderna del “tiranno - filosofo” che decide ciò che è bene per il popolo senza le pastoie di quella noiosa democrazia. La prima incarnazione del tiranno filosofo si chiama “vincolo esterno”: dobbiamo fare questo “per entrare in Europa” - per rispettare i parametri di Maastricht - perché lo chiedono i mercati internazionali - per mantenere il rating alle nostre emissioni. Una sottospecie del “vincolo esterno” si chiama “indipendenza della Banca Centrale”. Quindici anni fa era la Banca d'Italia, oggi si è aggiornato, si chiama BCE. Ma indipendenza da che cosa? Se il parlamento, la politica è la rappresentanza corretta della volontà dei cittadini, indipendenza della Banca significa precisamente indipendenza dei tecnocrati dalla volontà popolare: perché mai dovrebbe essere una condizione virtuosa, non riesco a capirlo.
Ovviamente il cittadino si lascia indottrinare dal vincolo esterno solo fino ad un certo punto, ma un risultato lo si ottiene di sicuro: quello di rendere impopolare l'idea europea, in nome della quale si impone il vincolo.
Una soluzione più diretta al problema la si cerca poi semplicemente indebolendo il tasso di democrazia nel sistema politico: il bipolarismo leaderistico, i sistemi maggioritari, la soppressione della democrazia interna nei partiti, le primarie a vincitore scontato, sono tutti espedienti che vanno in questa direzione. Sospetto che anche questo improvviso amore per il grande partito democratico abbia dietro questa illusione: evitare di dover sottostare a verifiche di consenso troppo stringenti. Ma alla fine, nei fatti, si sono dimostrate tutte soluzioni perdenti: così, le vere riforme non le faremo mai.
Proviamo invece ad immaginare un'altra strada: quella di affrontare di petto il problema di ottenere il consenso, anche per provvedimenti difficili. Si dovrà cominciare col prendere in esame le soluzioni legislative non solo dal punto di vista della loro astratta “ottimalità”, ma anche considerando con più attenzione la loro praticabilità sociale. Ogni politico si dovrà preoccupare della propria autorevolezza e credibilità personale, dovrà “metterci la faccia” sui provvedimenti in cui crede. A Enrico Letta, per esempio, mi sentirei di dire: se la spesa pensionistica è una percentuale eccessiva delle risorse totali disponibili per il welfare, gli anziani possono anche capirlo ed accettarlo, nell'ambito di un patto di solidarietà fra generazioni. Ma certo, tu devi garantire che le risorse risparmiate andranno a finanziare un trattamento di sostegno per i loro figli temporaneamente disoccupati, e non a pagare i costi della nuova portaerei. Se non vuoi o puoi garantirlo, se non ti senti di rischiare la tua carriera politica su questa garanzia, fanno bene a votarti contro. Non sono loro che sono pazzi, siete voi che siete mestatori.
Per esempio, caro Prodi, vuoi cortesemente spiegarci come mai hai sostenuto che la finanziaria doveva assolutamente contenere 15.000 milioni di euro di tagli netti “per raddrizzare i conti” e poi, poche settimane dopo, siete venuti a dirci che le entrate fiscali erano molto superiori a quanto (ufficialmente) previsto e quindi, logicamente, la correzione finanziaria avrebbe potuto essere più leggera? Lo sai, caro Prodi, che questa parte deflazionistica della tua manovra causerà minor crescita da 0,5 a 1 punto percentuale di Pil? Mi permetti di credere che tu ed il tuo ineffabile ministro dell'Economia conosceste già la situazione ed abbiate voluto drenare comunque liquidità dal sistema? Come vuoi che possiamo fidarci di voi, rinunciare all' “uovo oggi” per sostenere le vostre riforme?
La risposta alla domanda: perché i riformisti non hanno successo, è abbastanza semplice: perché, fino ad oggi, non se lo meritano.