Non si crea una sensibilità pubblica con un corteo privo di seguito
A partire dal 2001, ovvero dall'entrata in vigore della legge che istituisce il “giorno della memoria” (legge n. 211, 20 luglio 2000) a Milano, la domenica pomeriggio più vicina al 27 gennaio, si svolge un corteo. Un atto sempre più vuoto.
Una settimana fa con un intervento su Repubblica-Milano Davide Romano a nome dell'Associazione Amici di Israele ha proposto alle forze della destra e agli immigrati, soprattutto a quelli provenienti da paesi in cui “l'insegnamento della Shoah è assente, se non addirittura negata nei libri di testo”, di partecipare al corteo per il giorno della memoria. Capisco la preoccupazione di Davide Romano, per certi aspetti la condivido, ma non sono d'accordo. Più precisamente: perché fare un corteo per il giorno della memoria? Il problema non è se, chi e con quale proposta invitare qualcuno, bensì se non sia il caso di ripensare radicalmente le forme e le occasioni della riflessione e del confronto.
Ricordo la manifestazione dell'anno passato: una sorta di camminata imbarazzante lungo corso Vittorio Emanuele in mezzo alle file per i saldi. Il tutto concluso in Piazza Duomo in un'atmosfera surreale: un palco di oratori collocato in un angolo della piazza pieno di personalità pubbliche di vario tipo, circa 40 persone, di fronte, forse, a circa 300 persone che s'impegnavano a dichiarare l'eternità della memoria mentre a non più di 20 metri di distanza una massa di persone allegre - giustamente - si divertivano nella pista artificiale del ghiaccio.
Forse è meglio prendere atto che questa forma di riflessione pubblica comunica solitudine. E se l'obiettivo deve essere la creazione di una sensibilità collettiva, allora sono altre le forme che dovrebbe assumere l'atto ufficiale per il giorno della memoria. Un evento in cui contemporaneamente si devono “dare appuntamento” varie cose: un atto pubblico di riflessione; un luogo significativo che esprima il rapporto tra violenza e memoria; un contenitore che nel tempo sia in grado di esprimere un processo di crescita. Ovvero un percorso di educazione civica in quanto formazione culturale
La memoria ha bisogno di un luogo fisico per consolidarsi. Un luogo che evochi un passato (o lo faccia riscoprire) e allo steso tempo non sia un monumento.
In questo senso, la scelta del Binario 21 alla Stazione Centrale forse ha un futuro. Perché non è un sacrario, bensì un punto della memoria intorno a cui far crescere un'esposizione museale, un luogo di ricerca storica, volto a suscitare responsabilità civile. In breve perché allude a un progetto che ha per fine la produzione e la circolazione di riflessione pubblica.
L'imperativo per allontanarsi dalla retorica è la fuoriuscita dalla metafisica (sia quella del male, sia quella dei diritti umani, che sono una conquista e una replica al male avvenuto e non una rivelazione) per entrare in una dimensione storica.
In due direzioni. Da una parte questo passaggio consente di riflettere sul male come atto. Dall'altra implica riflettere sui diritti umani non come tavola astratta di valori, ma come norme concrete, che si originano da quella violenza. Anzi che sono il segno della memoria di quella violenza.
Proporre una riflessione sul male, e sulla necessità dei diritti umani è possibile se abbiamo consapevolezza del vincolo che li lega. Senza memoria del male, noi non avremmo percezione della risposta determinata dalla rivendicazione dei diritti. Solo chi pensa che quel male non sia esistito, o interpreta quel male come o al più prova una annoiata indifferenza, non avverte la legittimità dei diritti umani, e dunque è fuori dal giorno della memoria. Ovvero sceglie di collocarsi fuori del patto civile.
19.01.07 19:01 - sezione
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