In Cina la nuova frontiera di Benedetto XVI
La notizia della riunione che si è svolta venerdì e sabato scorsi in Vaticano a proposito della situazione dei cattolici cinesi e l'auspicio - come si legge nella nota diffusa al termine della riunione - “di proseguire il cammino di un dialogo rispettoso e costruttivo con le Autorità governative, per superare le incomprensioni del passato”, va letta come un segnale profondo. Benedetto XVI intende aprire in prima persona un confronto in un momento non facile del suo papato. E' da almeno quattro mesi che Benedetto XVI è spesso sotto il fuoco di fila dei critici: lo è stato prima a Ratisbona nella sua “Lectio doctoralis” da cui si è originato il conflitto con una parte consistente del mondo islamico, e lo è stato nelle settimane scorse a proposito delle dimissioni di Stanislaw Wielgus, arcivescovo di Varsavia dopo le rivelazioni che lo accusano di essere stato a lungo un confidente e una spia della polizia comunista. La sortita a proposito della Cina apre perciò un fronte - secondo lo stile di dialogo e di confronto a distanza, se vogliamo anche di sfida che fu di Giovanni Paolo II - e come in quella congiuntura è ancora a proposito di una profonda crisi interna - rappresentata dalla vicenda polacca - che riparte il confronto.
Che cos'è accaduto nelle settimane scorse a proposito della vicenda polacca? Abbiamo assistito a due scenari diversi e per certi aspetti contrapposti. Uno proprio della Polonia cattolica e uno della Chiesa di Roma.
Da una parte il rafforzamento di un'identità che usa toni e temi xenofobi in cui l'esaltazione della Chiesa nazionale è anche un modo per distaccarsi dalla Chiesa di Roma avvisata come troppo cosmopolita, pronta a difendere o a non sconfessare energicamente chi colpisce gli interessi della nazione e la danneggiano.
In breve, un Paese che si è storicamente vissuto e raccontato come una marca di confine, come un baluardo della civiltà ad Est e che per questo aveva prodotto una Chiesa militante attenta a coltivare l'identità nazionale. Una Chiesa che nella lunga stagione del comunismo all'Est si presentava come la voce autentica della Polonia, interpretandone umori e sentimenti.
Perché La Chiesa di Roma ha atteso che il passaggio si compisse per intero all'interno della gerarchia polacca? Non per incertezze. Nei confronti di Wielgus la Chiesa di Roma non ha avuto minori intransigenze della Chiesa polacca. Del resto non poteva permettersi che questo evento si chiudesse da solo. Ma lo sguardo di Roma è diverso. Deve mantenere un criterio di universalità nella difesa della memoria della sua battaglia in Polonia negli anni '80 e contemporaneamente dare il segno di una ritrovata universalità nella propria presenza pubblica.
Wielgus è il prototipo di una figura (perché altri casi si annunciano all'orizzonte) che mette in forse quel patrimonio storico rappresentato specularmente da padre Popelusko, il prete ucciso nel 1983 dai servizi segreti polacchi perché sostenitore di Solidarnosc. Quella figura, allora testimonianza di una battaglia per la libertà contro il tiranno, oggi rischia di rimanere solo il precursore di una chiesa nazionale ancella di una potere che rifiuta lo straniero a fronte di una Chiesa di Roma che proprio su questo doppio registro (la lotta ala tirannia e il dialogo), intende costruire una propria fisionomia, ma che per farlo deve anche stringere le maglie e irrigidire la sua battaglia contro la secolarizzazione.
Così il problema non è solo rafforzare la propria identità innalzando il tasso di presenza nell'opinione pubblica in merito a questioni di etica pubblica o di scelte sulla vita, ma anche mostrare il lato del dialogo.
Oggi la necessità da parte della Chiesa di Roma è di tenere aperto un portone di dialogo con il mondo non cattolico, e, soprattutto, la necessità di rinforzare la testimonianza del martirio in nome della difesa dei principi. Un confronto che nasce ossessionato dall'esempio islamico in cui la vocazione al martirio costituisce il messaggio più immediato per testimoniare l'irriducibilità della propria fede, sia al proprio interno come verso l'esterno.
Sul piano interno - come nel caso polacco - il confronto è con il nazionalismo delle nuove forze politiche di maggioranza. All'esterno è, invece rivolto, con animo preoccupato, ad altri scenari in cattolici sono minoranza e stanno giocando la partita di presentarsi come altra Anima del paese: in Indonesia, per esempio. Ma soprattutto in Cina.
L'apertura di ieri non è solo il tentativo “auspicato di pervenire a una normalizzazione dei rapporti ai vari livelli, al fine di consentire la pacifica e fruttuosa vita della fede nella Chiesa e di lavorare insieme per il bene del popolo cinese e per la pace nel mondo”, come si legge nella nota vaticana trasmessa alla fine della riunione. E' anche una risposta a coloro che pensano che la Chiesa di Benedetto XVI sia la difesa ad oltranza del proprio territorio storicamente consolidato, e il confronto solo con l'Islam. Da ieri si è aperta un'altra frontiera, e forse una stagione diversa di un papato che nei suoi primi venti mesi è stato decisamente e prevalentemente “europeo”.
La notizia della riunione che si è svolta venerdì e sabato scorsi in Vaticano a proposito della situazione dei cattolici cinesi e l'auspicio - come si legge nella nota diffusa al termine della riunione - “di proseguire il cammino di un dialogo rispettoso e costruttivo con le Autorità governative, per superare le incomprensioni del passato”, va letta come un segnale profondo. Benedetto XVI intende aprire in prima persona un confronto in un momento non facile del suo papato. E' da almeno quattro mesi che Benedetto XVI è spesso sotto il fuoco di fila dei critici: lo è stato prima a Ratisbona nella sua “Lectio doctoralis” da cui si è originato il conflitto con una parte consistente del mondo islamico, e lo è stato nelle settimane scorse a proposito delle dimissioni di Stanislaw Wielgus, arcivescovo di Varsavia dopo le rivelazioni che lo accusano di essere stato a lungo un confidente e una spia della polizia comunista. La sortita a proposito della Cina apre perciò un fronte - secondo lo stile di dialogo e di confronto a distanza, se vogliamo anche di sfida che fu di Giovanni Paolo II - e come in quella congiuntura è ancora a proposito di una profonda crisi interna - rappresentata dalla vicenda polacca - che riparte il confronto.
Che cos'è accaduto nelle settimane scorse a proposito della vicenda polacca? Abbiamo assistito a due scenari diversi e per certi aspetti contrapposti. Uno proprio della Polonia cattolica e uno della Chiesa di Roma.
Da una parte il rafforzamento di un'identità che usa toni e temi xenofobi in cui l'esaltazione della Chiesa nazionale è anche un modo per distaccarsi dalla Chiesa di Roma avvisata come troppo cosmopolita, pronta a difendere o a non sconfessare energicamente chi colpisce gli interessi della nazione e la danneggiano.
In breve, un Paese che si è storicamente vissuto e raccontato come una marca di confine, come un baluardo della civiltà ad Est e che per questo aveva prodotto una Chiesa militante attenta a coltivare l'identità nazionale. Una Chiesa che nella lunga stagione del comunismo all'Est si presentava come la voce autentica della Polonia, interpretandone umori e sentimenti.
Perché La Chiesa di Roma ha atteso che il passaggio si compisse per intero all'interno della gerarchia polacca? Non per incertezze. Nei confronti di Wielgus la Chiesa di Roma non ha avuto minori intransigenze della Chiesa polacca. Del resto non poteva permettersi che questo evento si chiudesse da solo. Ma lo sguardo di Roma è diverso. Deve mantenere un criterio di universalità nella difesa della memoria della sua battaglia in Polonia negli anni '80 e contemporaneamente dare il segno di una ritrovata universalità nella propria presenza pubblica.
Wielgus è il prototipo di una figura (perché altri casi si annunciano all'orizzonte) che mette in forse quel patrimonio storico rappresentato specularmente da padre Popelusko, il prete ucciso nel 1983 dai servizi segreti polacchi perché sostenitore di Solidarnosc. Quella figura, allora testimonianza di una battaglia per la libertà contro il tiranno, oggi rischia di rimanere solo il precursore di una chiesa nazionale ancella di una potere che rifiuta lo straniero a fronte di una Chiesa di Roma che proprio su questo doppio registro (la lotta ala tirannia e il dialogo), intende costruire una propria fisionomia, ma che per farlo deve anche stringere le maglie e irrigidire la sua battaglia contro la secolarizzazione.
Così il problema non è solo rafforzare la propria identità innalzando il tasso di presenza nell'opinione pubblica in merito a questioni di etica pubblica o di scelte sulla vita, ma anche mostrare il lato del dialogo.
Oggi la necessità da parte della Chiesa di Roma è di tenere aperto un portone di dialogo con il mondo non cattolico, e, soprattutto, la necessità di rinforzare la testimonianza del martirio in nome della difesa dei principi. Un confronto che nasce ossessionato dall'esempio islamico in cui la vocazione al martirio costituisce il messaggio più immediato per testimoniare l'irriducibilità della propria fede, sia al proprio interno come verso l'esterno.
Sul piano interno - come nel caso polacco - il confronto è con il nazionalismo delle nuove forze politiche di maggioranza. All'esterno è, invece rivolto, con animo preoccupato, ad altri scenari in cattolici sono minoranza e stanno giocando la partita di presentarsi come altra Anima del paese: in Indonesia, per esempio. Ma soprattutto in Cina.
L'apertura di ieri non è solo il tentativo “auspicato di pervenire a una normalizzazione dei rapporti ai vari livelli, al fine di consentire la pacifica e fruttuosa vita della fede nella Chiesa e di lavorare insieme per il bene del popolo cinese e per la pace nel mondo”, come si legge nella nota vaticana trasmessa alla fine della riunione. E' anche una risposta a coloro che pensano che la Chiesa di Benedetto XVI sia la difesa ad oltranza del proprio territorio storicamente consolidato, e il confronto solo con l'Islam. Da ieri si è aperta un'altra frontiera, e forse una stagione diversa di un papato che nei suoi primi venti mesi è stato decisamente e prevalentemente “europeo”.
22.01.07 13:51 - sezione
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