Proprio nelle fila dell’esercito da cui Musharraf proviene si annidano gli oppositori alla sua politica filo-americana
Il vero bersaglio è il leader del Pakistan
di Gabriel Bertinetto
L’attentato sul treno dell’amicizia può essere diretto specificamente contro entrambi i governi, indiano e pachistano, che da qualche anno tra mille difficoltà si ostinano a percorrere la strada del dialogo. Ma se l’obiettivo immediato sembra quello di ostacolare il loro comune cammino e riportare indietro l’orologio della storia ai tempi non lontani dello scontro politico e talvolta militare, l’immediata reazione delle autorità dell’uno e dell’altro Paese lascia credere che la volontà di procedere uniti rimanga intatta. Tuttavia si ha l’impressione che la strage rientri in un disegno terroristico più sottile, in cui il bersaglio finale è soprattutto il potere del presidente pachistano Pervez Musharraf.
La democrazia indiana è sufficientemente solida e sviluppata per sopravvivere, come già è avvenuto in passato, a scosse violente. Del tutto diversa è la situazione dello Stato pachistano. L’autorità di Musharraf poggia essenzialmente sull’appoggio delle forze armate, dai cui ranghi proviene e delle quali è tuttora il comandante supremo. Ma è proprio fra i militari che si annidano nuclei consistenti di oppositori e di cospiratori.
Costoro mettono sotto accusa il dialogo con l’India, che considerano un tradimento verso i separatisti islamici kashmiri, ma più in generale condannano la scelta filo-occidentale compiuta nel 2001, quando da un giorno all’altro Islamabad abbandonò l’alleanza con la teocrazia talebana e appoggiò l’intervento armato guidato dagli americani per rovesciare i mullah e cacciare dall’Afghanistan il loro gradito ospite Osama.
Quella drammatica decisione rappresentò un rovesciamento totale della linea sino allora sostenuta dallo stesso Musharraf, dall’esercito, dai servizi segreti (Isi). E molti non l’hanno ancora digerita, nonostante che per imporla il generale-presidente non abbia esitato a sacrificare molti dei suoi collaboratori più stretti, compresi quelli che l’avevano aiutato a prendere il potere con il golpe del 1999.
Per i due attentati cui Musharraf scampò nel dicembre 2003, sei uomini in uniforme fra cui due elementi dei reparti speciali sono comparsi di fronte alla corte marziale. Altri cinque ufficiali sono stati processati per complicità con Al Qaeda. Molto più alto però, secondo gli esperti, è il numero di coloro che tacciono ma sono pronti ad abbandonare Musharraf al suo destino non appena si presentasse l’occasione.
Sinora il capo di Stato pachistano ha tenuto duro grazie al sostegno statunitense. A coloro che mettono in dubbio l’opportunità della collaborazione con Washington, Musharraf contrappone tra gli altri argomenti, l’aiuto economico che ne deriva. Ma nel mettere in atto concretamente la sua linea filo-occidentale è costretto ad una serie di pericolosi compromessi. Come i negoziati di pace avviati nelle aree tribali alla frontiera con l’Afghanistan. Musharraf è consapevole dei forti legami etnici, religiosi, familiari che uniscono le popolazioni locali ai movimenti armati pro-talebani. Sa quanto sia difficile oltre che impopolare affrontare il problema solo con le armi. Per questo oltre a schierare le truppe al confine, come vogliono Washington e Kabul, cerca interlocutori con cui negoziare. Ma la via del dialogo non pare aver portato grandi frutti, e proprio negli ultimi mesi si sono moltiplicati scontri e attentati contro le forze di sicurezza pachistane ed i civili. Contemporaneamente da Kabul piovono critiche per lo scarso impegno di Islamabad nella lotta ai nemici di Karzai che si annidano non solo nelle aree tribali di frontiera, ma nel cuore stesso del Pakistan, a Quetta come a Karachi.
Odiato dagli integralisti di casa sua perché ritenuto poco meno di un apostata, criticato dagli alleati d’oltre confine perché giudicato troppo molle con gli estremisti, sopportato malvolentieri da parte delle truppe e dei comandanti, Musharraf resiste. Ma i suoi nemici intensificano il fuoco contro di lui.