Iraq, Tony Blair si ritira: Bush è sempre più solo
di Siegmund Ginzberg
Anche gli inglesi cominciano a tagliare la corda. Seguiti dai danesi. Ma Tony Blair dice che lo fanno perché nel Sud, a Bassora, le cose vanno molto meglio che a Baghdad. «Un altro importante passo in direzione dell’autosufficienza irachena», lo definisce il generale di Sua maestà britannica Jonathan Shaw. Il suo predecessore al comando britannico in Iraq aveva invece detto che bisognava andarsene, perché la presenza straniera peggiorava le cose. Gli americani sono invece in piena escalation, stanno inviando altri soldati. Ma pur di non usare un termine che ricorda il Vietnam hanno coniato un neologismo.
Lo chiamano surge, termine che indica temporaneità, come per gli sbalzi di tensione sulle linee elettriche.
Curioso quanto ci si sia spesso affidati al gioco con le parole per nominare l'indicibile, esorcizzare lo sgradevole, negare l'evidenza. Donald Rumsfeld aveva a lungo negato che ci fosse una insurgency in Iraq. Come se chiamarli invece terrorists gli potesse risolvere d'incanto il problema. Il guaio è che in certe cose la scaramanzia definitoria non basta. La chiamavano ricostruzione, pacificazione, negavano che si trattasse di guerra, perché quella era già stata definita vinta.
Ora non c'è tra i commentatori americani più nessuno, ma proprio nessuno, che non sostenga che l'obiettivo non è più vincere una guerra invincibile, semmai non perderla troppo catastroficamente. A lungo si era evitato di parlare anche solo di rischio di civil war. Per poi accorgersi che era già in corso. E ripiegare sull'argomento che la presenza di truppe alleate era necessaria a scongiurarla, mentre molti ritengono che semmai la incita, rendendo più difficile un compromesso tra le fazioni.
Succede che insistere a chiamare una cosa in un'altra maniera porti male. Della Prima guerra mondiale si diceva che avrebbe dovuto essere «la guerra che mette fine a tutte le guerre».
Ora sappiamo che fu l'inizio di molte altre: non solo nella Seconda, più terribile, guerra che avrebbe insanguinato tutta l'Europa, e non più solo le trincee; anche di tutte le guerre e tutte le instabilità successive in Medio oriente. Niall Ferguson è uno storico scozzese che insegna in America. Il suo tema preferito di ricerca sono i fasti dell'Inghilterra imperiale. Aveva inizialmente espresso non poco entusiasmo per la guerra in Iraq, suggerendo agli americani di imitare quanto più possibile lo stile che fece grande l'impero britannico. Anche lui sembra avere cambiato idea: il suo articolo sull'Iraq, nell'ultimo numero del mensile The Atlantic è intitolato: «A War to start all wars», una guerra che dà il via a tutte le guerre. L'argomento è che a quasi quattro anni dall'inizio della guerra in Iraq, l'intero Medio oriente somiglia sempre più all'Europa che finì a ritrovarsi senza volerlo nella Prima guerra mondiale.
Non si tratta solo di quello che si teme possa succedere in Iraq se il caos diventa generalizzato e tutti si mettono a massacrare ciascuno degli altri. L'incubo riguarda l'intera regione. Tra gli argomenti addotti per la guerra in Iraq c'era la speranza di ridisegnare una delle regioni più instabili da un secolo a questa parte, costruire una democrazia esemplare, ottenere un effetto domino sui vicini. Era il magnifico sogno rivoluzionario dei neo-cons, molti dei quali non per niente si erano formati originariamente all'estrema sinistra. Il risultato è stato invece forse far addirittura rimpiangere agli iracheni Saddam Hussein, incoraggiare i despoti locali a non mollare il potere, creare in tutto il mondo sunnita un'ondata di apprensione, minimizzare il pericolo rappresentato dall'estremismo e dal wahhabismo sunnita (per intenderci: da quelli come Osama bin Laden) per concentrare l'attenzione sul pericolo dell'estremismo e del fondamentalismo sciita (per intenderci: Hezbollah e Iran).
Non c'è paese confinante o nei dintorni dell'Iraq che non abbia consistenti minoranze sciite in mezzo ad una maggioranza sunnita (Libano, Afghanistan, Azerbagian, Kuwait, Siria, Turchia, Yemen, persino la sunniutissima Arabia saudita), o consistenti minoranze sunnite in mezzo a una maggioranza sciita (Iran). Iraq, Iran, Siria, e soprattutto Turchia hanno una forte minoranza curda.
Una guerra civile in Iraq ha potenzialità di contagio spaventose. Ferguson fa il confronto con altre due «guerre civili» e massacri etnici recenti: il conflitto tra Hutu e Tutsi che fece tra 1998 e 2000 tre, forse quattro milioni di vittime tra Ruanda, Congo, Tanzania e Uganda, e il conflitto tra Serbi, Croati e Bosniaci musulmani seguito alla dissoluzione della Yugoslavia. Quest'ultimo di morti ne fece forse non più di centomila. E aveva un vantaggio: difficilmente si sarebbe potuto estendere in quel modo a paesi confinanti come Italia e Austria, e nemmeno a Ungheria, Cecoslovacchia, Grecia, Bulgaria e Romania, benché tutti coinvolti nella disgregazione del vecchio impero austro-ungarico, esattamente come tutto il pasticcio Medio-orientale risale alla disgregazione dell'impero ottomano. Anche a un altro commentatore neo-con, Max Boot, l'Iraq di ora ricorda terribilmente il disfacimento della Yugoslavia e gli orrori dell'Africa centrale. Anche se per portarlo a concludere che bisognerebbe mandare più truppe in Iraq, altro che ritirarle.
È un incubo comunque lo si rigiri. Il casus belli principale erano state le armi di distruzione di massa di Saddam. La questione non è solo e tanto che non c'erano (in questo materia la prudenza non è mai troppa). È molto, molto peggio: che facendo la guerra a chi l'atomica non ce l'aveva si è finito per incoraggiare anziché scoraggiare chi se la stava facendo davvero: Corea del Nord e Iran.
Era sottinteso - anche se ci si vergognava di dirlo - che quella guerra avrebbe dovuto consolidare gli approvvigionamenti di petrolio e aiutare a stabilizzare l'economia mondiale.
Per il petrolio le cose non sono andate come previsto, e se i prezzi ultimamente sono scesi certo non è perché hanno ripreso a pompare i pozzi iracheni. Iraq e Afghanistan stanno costando agli Stati uniti 10 miliardi di dollari al mese. Hanno già speso, riaggiustando i conti con l'inflazione, più di quanto avevano speso nelle guerre in Corea e in Vietnam. È vero che nel frattempo l'economia Usa è cresciuta tanto che mentre la Seconda guerra mondiale gli era costata 30 per cento del prodotto interno, quello di Corea il 14 per cento, il Vietnam il 9 per cento, Iraq e Afghanistan in insieme gli stanno costando meno dell'1 per cento. Ma il guaio è che stavolta i contribuenti non intendono sborsare un centesimo più di quel che già pagano di tasse e devono affidarsi a chi nel mondo gli compra i dollari, finché dura.
Si dirà: gli era già successo di concludere catastroficamente una guerra, quella in Vietnam, e non per questo è crollato il mondo. Verissimo, ma quella volta erano stati molto fortunati: non si verificò affatto il temuto effetto domino per cui l'Asia sarebbe caduta paese dopo paese in mano ai comunisti. E della fortuna faceva parte il fatto che a garantire una certa stabilità c'era la Cina, con la quale Nixon e Kissinger si erano affrettati a venire a patti. Non c'è garanzia che certe fortune si ripetano automaticamente. Specie se, anziché trovare una composizione con l'Iran, decidessero di raddoppiare l'errore, e far la guerra anche all'Iran.
«Volenterosi» addio, Bush resta solo
Dall’inizio della guerra andati via 17 Paesi, ora ne restano solo 10
di Toni Fontana
CI VUOLE una bella faccia tosta, come quella di Dick Cheney, per dire che in alcune parti dell’Iraq «le cose vanno molto meglio». Gli inglesi non sono impantanati
quanto gli americani, ma anche loro stanno cercando di abbandonare la barca prima che affondi. Fin dal 2003 i britannici hanno concentrato e limitato (con alcune eccezioni) il loro impegno alle regioni del sud delle quali Bassora è la capitale. Forti della loro esperienza coloniale (Londra amministrò le tre provincie ex-ottomane di Bassora, Baghdad e Mosul negli anni 20) i britannici non hanno usato la mano pesante, schierato carri armati nelle città e, ispirati da Lawrence d’Arabia, hanno fatto concessioni ai capi delle tribù e delle confraternite sciite. Ciò non ha preservato le loro truppe dalla violenza. Sono 130 i caduti britannici nella guerra d’Iraq. I consiglieri di Blair hanno cercato ieri di mettere l’accento sul fatto che Londra proseguirà l’impegno militare in Iraq fino al 2008 e addestrerà le forze locali, ma la ben informata Bbc ha invece sottolineato che il premier non ha nascosto che la situazione a Bassora «rimane pericolosa» ed i problemi, anche nel sud, «sono molto seri». Negli ultimi mesi sono scoppiate violentissime faide tra le fazioni sciite e gli inglesi, per non venire schiacciati, si sono via via ritirati anche se non sono mancati i coinvolgimenti negli scontri. Blair, pur essendo stato fin dall’inizio complice di Bush nell’avventura irachena, esce comunque con onore dal pantano. Tre delle cinque province meridionali, Mutthanna, al Najaf e Dhi Qar (dove erano schierati gli italiani) sono state affidate al controllo iracheno ed le altre due (Bassora e Maysan), come ha anticipato ieri Blair, saranno tra breve sotto l’esclusiva autorità di Baghdad. Al tempo stesso l’annuncio fatto ieri a Londra segna in modo irreversibile la crisi della Coalizione dei volonterosi allestita da Bush. Tra i dieci paesi che ancora rimangono, la Polonia ha già annunciato l’imminente ritiro dei suoi 900 soldati, e altri, come i bulgari, hanno messo in chiaro che non resteranno oltre il 2008. Ma sono soprattutto le assenze (17) che si notano perché si tratta di paesi non secondari. I primi a levare le tende sono stati i 2000 spagnoli inviati da Aznar e richiamati da Zapatero. Da ottobre non vi sono in Iraq soldati italiani (se si escludono i consiglieri che operano a Baghdad su mandato Nato). In fuga da tempo anche olandesi e giapponesi, paesi amici degli Usa. La verità è che, come ha involontariamente ammesso ieri Dick Cheney, la sola preoccupazione di chi è invischiato in Iraq è quella di «tornare con onore», ma la violenza dilagante rende sempre più difficile questa prospettiva. Bush in Iraq può ormai contare su una decina di paesi, tra i quali i più forti appaiono la Corea del Sud (2300 soldati) e l’Australia (900 soldati combattenti). Gli altri otto appaiono poco più che comparse. La Coalizione è ad un passo dal disfacimento e a Baghdad il «piano per la sicurezza» sta naufragando tra attentati e sparatorie. Andarsene, anche «con onore», appare sempre più difficile.