Francesco Lorusso il sangue di un ragazzo che incendiò il ’77
È l’11 marzo, all’università di Bologna si fronteggiano
Cl e i collettivi. Il fratello: «Quegli spari cambiarono tutto»
di Gigi Marcucci / Bologna
«QUELLA MATTINA l’ho svegliato io. Doveva andare a studiare da un amico. Studiava molto: la mattina fino all'ora di pranzo, poi dalle 15 alle 20. Medicina la fai così, oppure non la fai». È l’11 marzo del 1977, a Bologna sembra l'inizio di un giorno normale. Francesco Lorusso, 25 anni, militante di Lotta continua, non sbaglia un esame: sul libretto ha molti 30 e qualche 28. Suo padre Agostino è un militare, mamma Virginia è un'insegnante. Quando non studia, Francesco si occupa di salute in fabbrica, in anni in cui la medicina del lavoro sta ancora muovendo i primi passi. «Se fosse ancora vivo, starebbe lavorando in Asia o in Africa, con qualche organizzazione non governativa. Ora cercherò di fargli avere almeno una laurea post mortem», dice suo fratello Giovanni, medico veterinario per 30 anni, oggi imprenditore con un debole per la filosofia di Rudolf Steiner, fondatore del movimento antroposofico.
Francesco è un gigante con la passione del rugby, ma è anche un ex scout con un fortissimo slancio verso il prossimo, ha fatto il portantino volontario a Lourdes. L'11 marzo, verso mezzogiorno, va in Piazza Verdi, a comprare un biglietto per il bus che il giorno dopo dovrebbe portarlo a Roma per una manifestazione del Movimento. In realtà marcia a grandi falcate incontro al suo destino. «Era un giovane di 25 anni, proveniva dal mondo cattolico, coltivava ideali di giustizia e sperava in un mondo migliore - spiega oggi Giovanni -. Niente di più, niente di meno. Io non posso dimenticare che su qualche giornale, purtroppo anche sul vostro, venne bollato come ultrà, che allora era quasi sinonimo di terrorista».
Via Irnerio 48, facoltà di Medicina, aula di Anatomia. Quella mattina gli studenti di Comunione e liberazione hanno indetto un'assemblea. Una decina di persone dei collettivi entra, chiede la parola, che viene negata. Scoppia un tafferuglio, i contestatori vengono allontanati e chiamano rinforzi. Fuori dalla facoltà cento persone gridano slogan contro "Cielle". Dentro il direttore dell'Istituto chiama la polizia. Sono le 11,30, arrivano dieci guardie di pubblica sicurezza e dieci carabinieri. Poi i rinforzi, altri 50 uomini. Parte una carica, volano randellate, i manifestanti si disperdono. Cariche e lanci di lacrimogeni continuano per un po' lungo le laterali, coinvolgendo anche gente che non c'entra. È un altro segnale che nella gestione dell'ordine pubblico a Bologna qualcosa è cambiato. Il primo l'ha dato Graziano Gori, capo della Digos, uomo di forti convenzioni democratiche, spiegando ai ragazzi dei movimenti con cui di solito tratta il percorso dei cortei che non sarà più il loro interlocutore. Muore alcuni anni dopo, in un incidente stradale.
Massimo Tramontani ha 22 anni, è un carabiniere di leva a tre settimane al congedo. È alla guida di un camion, in via Irnerio, gli ordinano di dirigersi verso piazza dei Martiri. Ciro Lomastro, il funzionario di polizia che dirige le operazioni, ha già dato il segnale di «cessato intervento». La colonna si mette in moto, all'incrocio di via Bertoloni volano due molotov, una incendia un'auto della polizia. Tramontani scende dal mezzo, impugna il moschetto, spara 12 colpi: in aria. Qualcuno glielo ha ordinato? È stata una sua iniziativa? Sono interrogativi che non troveranno mai una risposta certa. Di sicuro il capitano Pietro Pistolesi ordina a Tramontani di rimettersi alla guida del mezzo. In via Irnerio gli incidenti sono ripresi, Tramontani deve passarci in mezzo: gli ordini non si discutono. Nel frattempo Francesco cerca di capire cosa succede, si unisce a un gruppo di compagni.Il camion di Tramontani è all'altezza di via Mascarella quando volano altre due molotov, una centra il suo camion. Il carabiniere scende, impugna la semiautomatica calibro 9, spara cinque colpi. Questa volta ad altezza d'uomo. Dall'altra parte della strada c'è la Zanichelli. Quelli alla finestra pensano che sia impazzito, anche perché Tramontani spara contro il fumo dei lacrimogeni, non si vede nessuno. Un impiegato riferirà di aver visto anche un ufficiale sparare con una pistola.. Francesco e i compagni scappano. Sembra impossibile che qualcuno stia davvero sparando. Bisogna voltarsi, guardare, cercare di capire. Francesco lo fa e in quel momento un proiettile lo centra allo sterno. Cade all'altezza del numero civico 37. Racconta Giovanni: «In quel momento cominciò la consunzione dei miei genitori, che hanno speso entrambi la loro vita per cercare di dare un senso alla morte di Francesco. Io, come loro, ho vissuto questa cosa sulla mia pelle, quindi non venite da me a chiedere spiegazioni. Non sono la persona più adatta a darle. Tutto quello che ricordo è che non ci fu permesso di fare i funerali di Francesco dentro le mura della città». È un ricordo che ancora brucia. «Ricordo sindaci come Renzo Imbeni e Walter Vitali, che con noi hanno mostrato grande umanità». L’elenco non comprende Renato Zangheri.
Per Bologna è uno dei giorni più neri. Il dolore per quella morte incomprensibile rimane fuori dal cuore della città. Il Pci si sente sotto assedio, passerà un po’ di tempo prima che riesca a mettere a fuoco le ragioni della rivolta, a percepire la nascita di quella che Asor Rosa, in un famoso saggio pubblicato da Einaudi, definisce la «seconda società». Scoppiano incidenti in tutta Bologna. Viene preso d'assalto il Cantunzein, ristorante in piazza Verdi frequentato da molti esponenti del Pci. Il giorno dopo ancora incidenti: questa volta viene assaltata un'armeria, spariscono fucili e pistole. Francesco Cossiga, ministro dell'Interno, manda i blindati in città. Cala il buio, le immagini si trasformano in ombre sfocate. Pochi sono in grado di capire chi sia davvero Francesco Lorusso. Certo è di Lotta continua, è anche responsabile del servizio d'ordine, ma non condivide la violenza che in quegli anni sta prendendo piede. A Torino c'è un giovane, Silvio Viale, anche lui di Lotta continua, anche lui, come Francesco, responsabile del servizio d'ordine. È uno dei primi manifestare solidarietà alla famiglia di un poliziotto ucciso da Prima Linea. Piccoli gesti di grande valore, ma in quegli anni sembra impossibile accorgersene. La violenza cancella le differenze, agisce come un frullatore, mantecando identità politiche e individuali. Molti anni dopo, tra le carte del padre, Agostino Lorusso, Giovanni trova una lettera del carabiniere Massimo Tramontani. «Era la richiesta di un incontro, molto rispettosa. Mio padre non ha mai accettato» dice Giovanni. «Io personalmente non avrei nessun problema a incontrarlo - continua -. Non ho mai cercato vendette. E poi credo che quell'uomo, se è davvero stato lui, abbia un bel peso sulla coscienza. E di questo sicuramente non godo».
"I fatti di Bologna caricano di tensione l'imponente corteo nazionale contro la repressione che si svolge il 12 marzo a Roma. Bottiglie molotov vengono lanciate contro sedi della DC, comandi di carabinieri e polizia, banche, ambasciate. Gli scontri nelle strade sono violenti, e in alcuni casi si svolgono a colpi di arma da fuoco.
Ai compagni, ai familiari e agli amici di Lorusso si impedisce intanto di svolgere il funerale in città e di allestire la camera ardente nel centro storico, mentre il contatto ricercato dai militanti del movimento con i Consigli di Fabbrica e la Camera del Lavoro è reso difficile dalla posizione intransigente assunta dalle organizzazioni della sinistra storica. La frattura con il PCI raggiunge il suo apice nella manifestazione contro la violenza, organizzata per il 16 marzo a Bologna dai sindacati confederali, con la partecipazione, tra gli altri, della DC, partito che il movimento aveva indicato quale principale responsabile dell'assassinio. In quell'occasione al fratello di Francesco fu vietato l'intervento dal palco."
tra gli altri, per saperne di più:
http://www.reti-invisibili.net/francescolorusso/
http://www.chieracostui.com/costui/docs/search/schedaoltre.asp?ID=6566