Don Sandro, cappellano a Rebibbia «Peccato contro Dio rinchiudere la gente»
di Paolo Brogi
Da Rebibbia, il carcere più grande di Roma, porterà alla marcia due idee, due concetti base. Primo: «Per molti soggetti svantaggiati, la maggioranza delle persone che sono detenute, il nostro carcere assomiglia alla pena di morte. Diventa di fatto un ergastolo...». Secondo, carico di empito teologico: «Il carcere oggi è solo un luogo di afflizione e affliggere è un peccato contro Dio. Da Abele e Caino in poi l'afflizione deve puntare invece alla riconciliazione...».
Un sacerdote in cammino, dal Campidoglio a piazza San Pietro. Per fermare il boia ma anche per fermare il carcere così com'è. Questa è la marcia di don Sandro Spriano, 65 anni, da diciannove cappellano a Rebibbia. Il suo è un grido di dolore contro la morte che è anche qui, tra noi. E che lui chiama galera. Ieri in un breve collegamento con Radio Radicale ha spiegato il senso della sua adesione. Parole secche, forti, di questo sacerdote del vicariato che ha accusato l'attuale sistema penitenziario, perlomeno quello che lui conosce direttamente da tanti anni, di essere un posto in cui si cerca solo di sopravvivere. Nient'altro. Parole che non sono passate inosservate e che poi lui accetta di spiegare meglio. Lo fa così.
«Il carcere non è una struttura del bene, è una struttura del male — dice —. Lì dentro ogni punizione è fine a se stessa, la struttura è dura e deresponsabilizzante, l'unico orizzonte che vale per chi ci finisce dentro è quello della pura e semplice sopravvivenza. Il carcere che io accuso è quello che toglie la responsabilità...».
Niente scorciatoie, redimersi è riconciliarsi. Se ne sono resi conto per primi i reclusi che partecipano alle sue funzioni religiose dentro il carcere. Le sue omelie, a Rebibbia, hanno lasciato spesso il segno, forse sconcertando per primi gli stessi carcerati. «A volte mi sembra di passare per un Savonarola — riflette il prelato —. Ma io glielo devo dire in modo chiaro... Guardate, ripeto spesso nelle omelie, questa punizione non è quella che vi fa pagare per il reato commesso. Questa è solo sofferenza. Pagare per il reato significa invece ripensare alle motivazioni reali che vi hanno fatto scegliere quel male e provare ad intraprendere il cammino di riconciliazione con se stessi e con le vittime. Altrimenti, aggiungo, il carcere è solo un calcolo, non compone le rotture, non riconcilia col presente... Ed è quanto invece purtroppo capita oggi dentro il carcere».
La reazione? «C'è un'attenzione molto forte, parecchi si avvicinano alla fine della Messa e mi ringraziano — spiega il cappellano —. E qualcuno comincia anche a pensare a come riconciliarsi... Ma è difficile misurarsi con una struttura che punta solo sull'afflizione. Intendiamoci, io non condanno le persone che istituzionalmente operano nel carcere, condanno la finalità attuale della struttura. Di gente che si occupa del carcere ce n'è tanta. Però bisogna anche interrogarsi su quello che succede là dentro. Me ne sono reso conto pian piano nel tempo, vedendo quel continuo ritorno in carcere di soggetti deboli e svantaggiati. C'è una continua entrata e uscita per piccoli reati, col risultato che si finisce inghiottiti da una spirale da cui non si esce più, finendo per scontare a volte vent'anni e passa di reclusione. Per molti detenuti il carcere rappresenta allora la spinta a una morte interiore. Parlo di un tipo di detenuti che rappresenta purtroppo la maggioranza di chi è in carcere».
Indifferenza e lontananza della società civile, ecco secondo il sacerdote l'altra faccia dell'afflizione penitenziaria fine a se stessa. «La società esterna considera a volte il carcere come il posto dove mettere chi dà fastidio, per non occuparsene più — accusa don Sandro —. E questo atteggiamento continua anche dopo. Basta vedere cosa succede a chi esce. Fuori trova il vuoto, non c'è nessuno ad accoglierlo, non è previsto nulla. Ecco la naturale prosecuzione di una struttura che oggi come oggi è solo afflittiva, rappresentando qualcosa che non va né verso l'amore né verso la riconciliazione ». È ciò che il cappellano non esita a chiamare «peccato». «Inutile attribuire al carcere tutte le funzioni di questo mondo, manicomio, asilo, ospedale... — aggiunge —. Come se i direttori e i loro collaboratori fossero psicologi o medici. In una situazione di costrizione tutte queste sono finzioni. Di fatto la persona resta sempre chiusa e intrattabile... E questo percorso è francamente orribile».
ciò spiega perchè l'indulto è stato solo il lavacro di Pilato a beneficio degli amici degli amici della classe politica.